La Corte di cassazione, con ordinanza 26067 del 5 dicembre, ha stabilito che l’ammissione da parte del contribuente di aver simulato l’acquisto di quote sociali da un familiare non è sufficiente a spodestare l’accertamento induttivo in quanto le dichiarazioni stragiudiziali, nell’ambito del processo fiscale, non sono idonee a costituire, da sole, il fondamento della decisione.

Il fatto
A seguito dell’acquisto dell’intero pacchetto di quote di una società a responsabilità limitata, di rilevante importo, l’ente impositore accertava sinteticamente il reddito per maggiore capacità contributiva, ai sensi dell’articolo 38, comma 4, Dpr 600/1973, nei cui confronti l’interessato presentata opposizione in Commissione tributaria provinciale che, però, la rigettava, non dando seguito alla tesi difensiva che sosteneva trattarsi, in realtà, di un acquisto simulato.

La Commissione regionale invertiva l’ordine del primo giudicato, argomentando che l’indicato indice contributivo non poteva sussistere, e ciò sulla base di una dichiarazione extraprocessuale resa dalla stessa venditrice delle quote (peraltro figlia del contribuente), la quale attestava trattarsi di simulazione relativa (ex articolo 1414, comma 2, codice civile, perché quote cedute non a titolo oneroso ma gratuito) del contratto di vendita. Una circostanza sufficiente, questa, a far cadere la pretesa impositiva in secondo grado.

Con il susseguente ricorso per Cassazione, l’Amministrazione contesta violazione di legge e insufficiente motivazione, per avere la sentenza impugnata attribuito efficacia di prova piena alla dichiarazione della venditrice delle quote, in palese violazione del divieto di prova testimoniale nel processo tributario (articolo 7, comma 4, Dlgs 546/1992), atteso che alle dichiarazioni extraprocessuali di terzi può attribuirsi solo valore indiziario, inidoneo pertanto, in assenza di altre concordi risultanze, a soddisfare l’onere probatorio richiesto dalla legge.

Motivi della decisione
Premessa l’indiscutibilità del fatto che l’Amministrazione finanziaria possa legittimamente procedere con metodo sintetico (redditometro) alla rettifica della dichiarazione dei redditi, quando da elementi estranei alla configurazione reddituale prospettata dal contribuente si possa fondatamente presumere che ulteriori redditi concorrano a formare l’imponibile complessivo (Cassazione 23621/2011), nel caso trattato con l’ordinanza 26067, la Corte suprema ritiene il ricorso meritevole di accoglimento sotto entrambi i profili censori, atteso che la pronuncia gravata presenta una notevole lacuna costituita dall’assenza di emergenze istruttorie atte a suffragare il contenuto della dichiarazione dell’atto di notorietà sottoscritto dalla venditrice delle quote.

Questa circostanza, è in contrasto con l’affermazione (Cassazione 16032/2005 e 6755/2010) secondo cui, nel processo tributario, deve ritenersi ammissibile la produzione di atti notori con valore indiziario, quali documenti facenti fede solo riguardo alla data, all’esistenza e alla provenienza delle dichiarazioni in essi scritte, ma non quanto all’attendibilità delle dichiarazioni medesime, stante il divieto di ammissione della “prova testimoniale” posto dall’articolo 7 del Dlgs 546/1992, giacché finirebbe per introdurre nel processo tributario - eludendo il divieto di giuramento e prova testimoniale - un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo (Cassazione 3526/2002, 703/2007 e 3724/2010).

Né con ciò viene violato il principio della cosiddetta parità delle armi, nonché l’effettività del diritto di difesa (Cassazione 4269/2002) che, secondo costante giurisprudenza costituzionale (sentenze 253/1994 e 18/2000), rappresenta l’espressione, in campo processuale, del principio del giusto processo contenuto nel nuovo testo dell’articolo 111 della Costituzione, considerato che anche il contribuente può produrre documenti contenenti dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il medesimo valore probatorio.

La Commissione d’appello, quindi, non solo non ha escluso l’ammissibilità dell’atto notorio ma non vi ha neppure attribuito valore meramente indiziario, ritenendolo invece idoneo a fornire la prova dirimente del fatto controverso, tanto più che non ha tenuto conto che tali dichiarazioni provenivano dal contribuente stesso e dalla di lui figlia (Cassazione 149/2010).

In ultima analisi, quindi, con la pronuncia in esame, la Cassazione smentisce condivisibilmente l’asserita “inidoneità” del fatto dedotto in giudizio a fondare una presunzione di capacità contributiva, approdando così alla conclusione che le risultanze delle dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale non hanno valore probatorio pieno, ma possono essere utilizzate solo quando trovino ulteriore riscontro nell’istruttoria processuale.


Fonte: Agenzia Entrate

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