In materia di Iva, la consapevolezza da parte del soggetto che opera una cessione di beni della falsità della “dichiarazione d’intenti”, emessa da una persona dichiaratasi esportatore abituale, legittima il recupero, in capo allo stesso cedente, dell’imposta evasa.
In questi termini si è espressa la Cassazione nella sentenza 23610 dell’11 novembre, con argomentazioni ampiamente fondate.

I fatti di causa
L’Agenzia impugna in Cassazione una sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte che, nel rigettare il gravame proposto dalla stessa Amministrazione finanziaria, aveva confermato la pronuncia di primo grado che, a sua volta, aveva annullato alcuni avvisi di accertamento emessi nei confronti di una società (poi fallita), per il recupero di imposte dirette e Iva per il triennio 1997/1999.
Relativamente all’Iva, l’accertamento si fondava su una cessione di beni fatturati dalla società convenuta come non imponibili (articolo 8, comma 2, Dpr 633/1972) sulla base di una dichiarazione in tal senso rilasciata dall’acquirente, rivelatasi poi non veritiera e fraudolenta.

Nel merito, il giudice di appello aveva ritenuto che la previsione dell’articolo 8, comma 2, del Dpr Iva – secondo cui “le cessioni e le prestazioni di cui alla lettera c) sono effettuate senza pagamento dell’imposta ai soggetti indicati nella lettera a), se residenti, ed ai soggetti che effettuano le cessioni di cui alla lettera b) del precedente comma su loro dichiarazione scritta e sotto la loro responsabilità, nei limiti dell’ammontare complessivo dei corrispettivi delle cessioni di cui alle stesse lettere dai medesimi fatte nel corso dell’anno solare precedente” – non prevedeva la responsabilità del cedente dei beni per una falsa dichiarazione di intenti (la responsabilità solidale è stata introdotta con l’articolo 1, comma 384, della legge 311/2004, secondo cui “Chiunque omette di inviare, nei termini previsti, la comunicazione di cui all’articolo 1, comma 1, lettera c), ultimo periodo, del decreto-legge 29 dicembre 1983, n. 746, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17, introdotto dal comma 381, o la invia con dati incompleti o inesatti, è responsabile in solido con il soggetto acquirente dell'imposta evasa correlata all'infedeltà della dichiarazione ricevuta)”.

Inoltre, dagli atti risultava che la società non aveva tratto vantaggio dalla vendita in esenzione di Iva, anzi, aveva dovuto rimandare il recupero dell’imposta versata in eccedenza (relativa agli acquisti) a momenti successivi.

Nel ricorso di legittimità l’Agenzia denuncia, tra gli altri, il vizio di motivazione della sentenza impugnata laddove non ha tenuto conto che, dai numerosi elementi indiziari prospettati, era emerso un evidente carattere fittizio della società acquirente come esportatore abituale e l’esistenza, invece, di un accordo fraudolento tra quest’ultima e la società cedente, al fine di eludere il pagamento dell’Iva e immettere sul mercato prodotti, al netto dell’imposta, a prezzi più competitivi.

Oltretutto, prosegue ancora la difesa erariale, la società convenuta, avendo pagato l’Iva sui propri acquisti, avrebbe portato in detrazione l’intera imposta versata sugli stessi, senza dover operare alcuna compensazione con l’Iva che avrebbe dovuto incassare se avesse effettuato (come avrebbe dovuto fare) le sue operazioni attive in regime ordinario di imponibilità.

La sentenza della Cassazione
Per i giudici di piazza Cavour la doglianza merita accoglimento.
Al riguardo, la Cassazione, in conformità a sue precedenti pronunce (sentenze 21956/2010 e 16819/2008), ricorda che la consapevolezza (da parte del soggetto che cede un bene) della falsità della dichiarazione d’intenti emessa - ai sensi dell’articolo 1, primo comma, lettera c), del Dl 746/1983 - da persona dichiaratasi esportatore abituale e sulla cui scorta l’operazione non viene assoggettata a imposta, “comporta la non sussumibilità di quest’ultima nella fattispecie legale delineata dall’art. 8 d.P.R. n. 633 del 1972 per mancanza originaria dell’elemento che caratterizza quel modello legale. Ne consegue che l’operazione commerciale posta in essere, non potendosi considerare in regime di esenzione, obblighi il cedente….a versare egli stesso l’imposta”.

Nel caso in esame, continua la Corte suprema, il recupero dell’Iva era fondato su un’utilizzazione strumentale - da parte della cedente, stante l’assenza dei presupposti fissati dalla legge - del sistema di non imponibilità previsto per le cessioni all’esportazione fondate sulla lettera d’intenti resa dal cessionario che, nella fattispecie, era una mera società filtro (“cartiera”), creata al solo scopo di evitare il pagamento dell’imposta.

Nel merito, poi, la Cassazione censura l’operato del giudice di appello laddove ha trascurato di esaminare “…i numerosi elementi diretti a provare l’esistenza dell’accordo fraudolento della contribuente con il cessionario” e di “…dare conto dell’esistenza ovvero dell’inesistenza di un accordo siffatto, circostanza costituente fatto decisivo e controverso…”.

Osservazioni
L’articolo 8, comma 1, lettera c), del Dpr 633/1972, disciplina le cessioni all’esportazione effettuate nei confronti degli esportatori abituali (“esportazioni indirette”), stabilendone la non imponibilità a determinate condizioni, tra cui, per quanto qui di interesse, quelle previste dal Dl 746/1983, ossia quelle subordinate a un’apposita “dichiarazione d’intento” rilasciata dall’esportatore (articolo 1, comma 1, lettera c).
L’articolo 2, comma 1, del Dl 746/1983 prevede la responsabilità di colui che effettua cessioni all’esportazione in esenzione di imposta in mancanza dell’anzidetta dichiarazione, aggiungendo che, “qualora sia stata rilasciata la dichiarazione, dell’omesso pagamento dell’imposta rispondono soltanto i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa”.
Mentre, l’articolo 7, comma 3, Dlgs 471/1997, dispone che “Chi effettua operazioni senza addebito d’imposta, in mancanza della dichiarazione d’intento di cui all’articolo 1, primo comma, lettera c), del decreto-legge 29 dicembre 1983, n. 746, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17, è punito con la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento dell’imposta, fermo l’obbligo del pagamento del tributo. Qualora la dichiarazione sia stata rilasciata in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge, dell’omesso pagamento del tributo rispondono esclusivamente i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa”.
In altri termini, secondo le citate disposizioni normative - finalizzate a incentivare l’esportazione -, il diritto dell’esportatore abituale a fruire dello speciale trattamento fiscale nasce da una situazione obiettiva, ossia dall’essere esportatore abituale operante nei limiti quantitativi previsti dalla norma.

A tal riguardo, la Cassazione ha chiarito che la condotta di colui che opera senza assolvere l’imposta in base a una dichiarazione fraudolenta, con la consapevolezza di tale falsità, è del tutto equivalente a quella di chi è assolutamente privo della dichiarazione, salva la concorrente responsabilità del cessionario, committente o importatore che ha rilasciato la dichiarazione non rispondente al vero (Cassazione, sentenze 6458/2010, 20834/2008 e 20834/2005).

Di contro, il soggetto cedente, una volta riscontrata la conformità alle disposizioni di legge delle dichiarazioni di intenti presentate dagli acquirenti, non è tenuto a eseguire alcun altro controllo, rimanendo la responsabilità, anche penale, derivante da un’eventuale falsità di tali attestazioni totalmente a carico di chi emette detta dichiarazione (Cassazione, sentenza 28948/2008).
In conclusione, la regola dell’articolo 8 del Dpr Iva - che prevede la non imponibilità dell’operazione alle condizioni dallo stesso indicate - non è applicabile alle fattispecie, come quella in esame, in cui manca, consapevolmente, il veritiero intendimento del cessionario (nel caso, falsamente dichiarante) di volere esportare la merce acquistata.

Ne consegue che la conoscenza della natura nazionale dell’operazione commerciale obbliga il cedente, come d’ordinario, all’osservanza in proprio delle afferenti disposizioni dettate dall’articolo 17, comma 1, del Dpr 633/1972, secondo cui “…l’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’erario, cumulativamente per tutte le operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista nell’art. 19, nei modi e nei termini stabiliti nel titolo secondo”.


Fonte: Agenzia Entrate

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