Per ottenere l’esenzione Iva negli scambi comunitari, è il contribuente a dover dimostrare l’effettiva destinazione dei beni all’estero. Lo puntualizza la sentenza 20575 del 7 ottobre, con la quale la Corte di cassazione ha confermato che la natura dell’operazione è un elemento imprescindibile per il riconoscimento del beneficio, e che deve essere dimostrata da chi emette la fattura.

La vicenda processuale
La vicenda riguarda una società che aveva effettuato cessioni intracomunitarie di beni in regime di non imponibilità nei confronti di una società inglese, ma l’ente impositore, rilevando l’insussistenza dei requisiti prescritti dall’articolo 41, comma 1, lettera a), del Dl 331/1993, assoggettava l’operazione a imposta ordinaria, come cessione interna.

La Commissione tributaria provinciale accoglieva le eccezioni di parte, poi confermate dal giudice dell’appello, il quale motivava che, ai fini del conseguimento del diritto al beneficio della “non imponibilità” di operazioni intracomunitarie, deve ritenersi sufficiente la comunicazione (articolo 50 del Dl 331/1993), da parte del cessionario, del numero identificativo Iva attribuito dallo Stato membro di appartenenza all’operatore, e che il cedente sarebbe in ogni caso liberato dall’obbligo di verifica dell’effettiva uscita dei ben dall’Italia una volta consegnato il bene all’acquirente.

L’Amministrazione finanziaria ricorre per Cassazione, denunciando la sentenza impugnata per violazione di legge (articoli 40, 41 e 50 del Dl 331/1993), in quanto la Commissione regionale non avrebbe tenuto conto che il beneficio della non applicazione dell’imposta è riconosciuto esclusivamente in relazione all’“effettiva” uscita dei beni oggetto di cessione dal territorio nazionale, circostanza che incombe sul cedente in base alle generali norme sull’onere della prova (articolo 2697 codice civile).

Le cessioni intracomunitarie
Occorre ricordare che per avere una cessione comunitaria non imponibile Iva è necessario che:
sia a titolo oneroso
i beni siano trasferiti in altro Stato membro
sia effettuata tra soggetti passivi d’imposta comunitari.
In tal modo, una cessione assume i caratteri di scambio intracomunitario, con conseguente emissione di fattura non imponibile da parte del cedente italiano e tassazione nel Paese di destinazione della merce (da parte del cessionario), al fine di evitare doppia imposizione.
Gli operatori degli scambi commerciali in ambito comunitario devono essere identificati da un codice Iva attribuito dalle rispettive Amministrazioni nazionali, il quale va indicato sulle fatture di vendita.

Se dalle cessioni eseguite non emerge la prova del trasporto o, comunque, della consegna della merce al cliente comunitario, formalmente destinatario dei beni trasferiti, l’ufficio può legittimamente quantificare il volume delle cessioni fatturate, ritenendole prive dei requisiti della non imponibilità, e recuperare l’imposta relativa.

Il decisus
La Cassazione ritiene fondato il motivo principale del ricorso, e stabilisce - contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo - che per ottenere la non imponibilità dal tributo è il contribuente a dover dimostrare l’effettiva destinazione dei beni fuori del territorio nazionale (articolo 7, Dpr 633/1972).
In particolare, la Sezione tributaria basa principalmente la trama argomentativa della decisione sulla norma civilistica della ripartizione dell’onere della prova (articolo 2697 codice civile), secondo cui l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano la deroga al normale regime impositivo è a carico di chi invoca la deroga agevolativa (Cassazione 3603/2009).

Da qui, spiega la Corte, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria contesti, recuperando l’imposta non versata, la non imponibilità ai fini Iva della cessione intracomunitaria di beni a titolo oneroso, per difetto del presupposto dell’introduzione dei beni ceduti nel territorio di altro Stato membro, grava sul cedente la prova dei fatti costitutivi del diritto che intende far valere in giudizio, non essendo sufficiente a tal fine la circostanza di aver richiesto e ottenuto la conferma della validità del numero di identificazione attribuito al cessionario da altro Stato membro della comunità europea (articolo 50, comma 1 e 2, Dl 331/1993). Né è sufficiente a rendere l’operazione esente dall’imposta l’avere indicato tale numero nella fattura emessa ai sensi dell’articolo 46 comma 2, del Dl 331/1993, occorrendo invece - secondo l’espressa previsione dell’articolo 41, comma 1, lettera a), del Dl 331/1993 - la prova dell’effettiva destinazione dei beni ceduti nel territorio dello Stato membro in cui il cessionario è soggetto di imposta.

Peraltro, il principio, più volte sancito dalla Suprema corte (Cassazione 12455/2007), si è consolidato anche nella giurisprudenza comunitaria, secondo cui compete al contribuente (cedente) l’onere di dimostrare l’effettività dei rapporti commerciali intracomunitari, considerato che l’invio dei beni in altro Stato dell’Unione europea è elemento costitutivo della fattispecie, in assenza del quale non può considerarsi legittima l’emissione di una fattura senza applicazione dell’imposta(cause C-146/05, C-184/05 e C-409/04 del 27 settembre 2007).


Fonte: Agenzia Entrate

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