La mancata esibizione della contabilità non è giustificata dal furto precedentemente denunciato, rimanendo così impregiudicata per l’Amministrazione la possibilità di ricorrere all’accertamento induttivo sulla scorta di presunzioni supersemplici. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza 16108 del 22 luglio.

Con l’occasione, i giudici hanno anche confermato la legittimità della motivazione per relationem, nei casi di rinvio ad atti conosciuti o conoscibili dal contribuente (nella fattispecie il pvc), per gli avvisi notificati prima dell’entrata in vigore dello Statuto del contribuente.

Un accenno ai fatti di causa

Al centro della vicenda tre avvisi di accertamento, ai fini Ilor e Irpef, elevati rispettivamente nei confronti di una società e dei suoi soci per gli anni di imposta 1998, 1999 e 2000.

Il recupero veniva fatto discendere dai risultati di un’indagine di polizia tributaria condotta su soggetti terzi, con i quali la società aveva intrattenuto rapporti commerciali.



Secondo i giudici della Ctr, il rifiuto di esibizione della contabilità da parte della società sarebbe stato giustificato dalla perdita dei documenti, dovuta a un furto precedentemente denunciato, con conseguente illegittimità degli avvisi emessi ai sensi dell’articolo 39, comma 2, Dpr 600/1973.

In secondo luogo, i giudici di merito ritenevano viziati gli avvisi per mancata notifica dei relativi pvc e/o mancato riporto, all’interno del corpo della motivazione, dei loro contenuti essenziali.

La pronuncia della Ctr viene disattesa dalla Corte di cassazione che accoglie il ricorso dell’Agenzia delle Entrate. Tale decisione va segnalata per almeno una coppia di precisazioni, la prima delle quali, per le implicazioni che comporta, merita una più distesa trattazione.



Sulla legittimità del ricorso all’accertamento induttivo

La Suprema corte accoglie la doglianza dell’Agenzia (violazione di legge ex articolo 360, comma 3, c.p.c.)facendo buon governo della disposizione che regola il ricorso all’accertamento induttivo.

Premettendo che, nella fattispecie, il furto sarebbe stato dal contribuente solo denunciato e non provato, la Cassazione esplicita il nodo della questione attraverso una lettura attenta del richiamato articolo 39, comma 2.

La norma non distingue tra perdita colpevole o incolpevole dei documenti, ma si limita a statuire che il ricorso alle presunzioni “supersemplici” è consentito dalla indisponibilità per causa maggiore delle scritture contabili. Con conseguente eliminazione in nuce dell’elaborazione di strategie difensive volte a bloccare l’utilizzo dello strumento presuntivo.

Se da un lato l’elemento soggettivo non rileva nella discussione sulla legittimità del ricorso a questo tipo di accertamento, dall’altro non va sottaciuto che il nostro ordinamento, nell’interpretazione attenta data dalla Consulta e dalla giurisprudenza di legittimità, prevede strumenti che preservano e conservano illeso il diritto di difesa del contribuente non colpevole.

Occorre, infatti, distinguere i due piani di indagine: il primo attiene alla possibilità per l’ufficio, legata all’indisponibilità della contabilità per causa maggiore ed indipendente dalla colpevolezza o meno del contribuente, di procedere ad accertamento induttivo; il secondo, invece, è incentrato sulla opportunità eccezionale per il contribuente incolpevole di essere autorizzato a determinati mezzi di prova, quali ad esempio la prova per testimoni.

Sotto questo secondo profilo, la tematica dell’indisponibilità per causa maggiore delle scritture contabili è stata spesso approfondita dalla Suprema corte, con riguardo specificatamente alla perdita di documenti avvenuta a causa di incendio (Cassazione, sentenza 5571/2011).

Poiché la normativa fiscale non si occupa di regolare le ipotesi di incolpevole impossibilità alla produzione dei documenti, la Corte ha costantemente sostenuto che occorre rivolgersi alle regole generali e, in particolare, all’articolo 2724 c.c., comma 3, dalla cui lettura si evince che “… la perdita incolpevole del documento occorrente alla parte per attestare una circostanza a lei favorevole non costituisce motivo di esenzione dall’onere della prova, né trasferisce lo stesso a carico dell’Ufficio, ma autorizza soltanto il ricorso alla prova per testimoni o per presunzioni, in deroga ai limiti per essa stabiliti…” (Cassazione, ordinanza 587/2010 e sentenze 10174/1995, 13605/2003 e 21233/2006).

Va da sé che, nel caso in esame, il contribuente, anziché limitarsi a sostenere l’avvenuto furto delle scritture contabili, ben avrebbe potuto ricorrere a questo strumento.
Tuttavia, e al di fuori di ogni ambizione di completezza, occorrerebbe d’altro canto spendere qualche considerazione sulla valenza di tale mezzo di prova.
L’articolo 2724 del codice civile, rubricato “Eccezioni al divieto della prova testimoniale”, stabilisce, difatti, tre circostanze di ammissione, tra le quali quella qui di interesse: “… quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova…”.
La norma civilistica recupera il suo antecedente logico nel precedente articolo 2721 c.c. che limita l’ammissibilità della prova per testimoni ai contratti con valore dell’oggetto superiore alle vecchie 5mila lire, salvo eccezioni a discrezione dell’autorità giudiziaria, in considerazione della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza.
Se nel diritto civile tale restrizione trova ratio nella diffidenza del legislatore verso la possibilità che i testi siano compiacenti o interessati, nonché nel pericolo di deformazioni inconsapevoli per lo sforzo di ricordare e riferire avvenimenti del passato, nel diritto tributario l’avversione a tali rischi è ancora più sentita, tant’è che l’articolo 7, del Dlgs 546/1992, introduce il divieto espresso del giuramento e della prova testimoniale nel processo tributario. La giustificazione dell’esclusione di questi due mezzi istruttori va ricercata, essenzialmente, nella natura prettamente documentale nonché nell’esigenza di speditezza del giudizio, che verrebbe appesantita dalla non semplice acquisizione e valutazione di detti mezzi di prova.

Sulla costituzionalità del divieto aveva già avuto modo di pronunciarsi la Consulta che, con sentenza 18/2000, aveva affermato l’infondatezza della questione, posto che non risulterebbe violato il principio di eguaglianza delle parti del giudizio “…che, in relazione a tale disposizione, sono poste in condizione di "parita' delle armi"…”,non sarebbe ravvisabile alcuna discriminazione rispetto ad altri ambiti “…in relazione alla "spiccata specificità" del processo tributario rispetto a quello civile e amministrativo, sia alla tipologia del processo tributario, essenzialmente scritto e documentale…” e non sarebbero rilevabili contrasti con l’ammissione delle dichiarazioni dei terzi, eventualmente raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale, “…in quanto dette dichiarazioni hanno mero valore indiziario, mentre il giudizio tributario può fare uso di poteri inquisitori su base imparziale, rinnovando o integrando l'attività istruttoria svolta dall'ufficio…”.
Nella stessa occasione la Corte costituzionale aveva rimarcato che anche il contribuente può introdurre, in sede processuale, eventuali dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessule, le quali non hanno il valore di prova ma di elementi indiziari che andranno valutati dal collegio giudicante necessariamente insieme ad altre circostanze.

Così ragionando potrebbe rinvenirsi uno spiraglio per superare i dubbi discendenti dal rigido divieto imposto dal comma quarto del citato articolo 7. Si ipotizzi, infatti, che, a fronte di dichiarazioni di terzi prodotte dall’Amministrazione, il contribuente ne alleghi altrettante di segno opposto. Fermo restando che tali elementi indiziari non possono fondare da soli la decisione, sarà compito dei giudici utilizzare i poteri inquisitori conferitigli dal primo comma dell’articolo 7, per verificare l’affidabilità delle dichiarazioni. Si renderà, pertanto, necessaria una convocazione delle persone informate sui fatti per una conferma o smentita delle dichiarazioni già rese. Con la conseguenza che tale modus operandi, ancorché distante dall’istituto dell’esame testimoniale, potrebbe assurgerne ad approssimazione.

Sulla non necessità di allegare i pvc agli avvisi

In merito alla seconda doglianza sollevata dall’Agenzia delle Entrate, con riferimento alla violazione dell’articolo 42, Dpr 600/1972, in relazione all’articolo 360, comma 3, c.p.c., i giudici di legittimità risolvono la questione precisando che le prescrizioni contenute nell’articolo 7 della legge 212/2000 (allegazione dell’atto a cui l’avviso fa riferimento) e dell’articolo 1, del Dlgs 32/2001 (riproduzione del contenuto essenziale dell’atto richiamato) hanno contenuto innovativo e non sono passibili di applicazione retroattiva.

Quindi, per gli accertamenti notificati in vigenza delle disposizioni precedenti (il riferimento va all’articolo 3, comma 3, della legge 241/21990) è sufficiente che il rinvio sia fatto ad atti conosciuti o conoscibili dal contribuente. Ciò si traduce nel mero obbligo per l’Amministrazione di indicare specificatamente l’atto menzionato nonché di renderlo disponibile al contribuente (Cassazione, sentenza 26119/2005).


Fonte: Agenzia Entrate

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