“Il consorzio, nato dallo specifico contratto per le finalità (“organizzazione comune per la disciplina o lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”) previste dall’art. 2602 cod. civ. non può e non deve avere (se vuole mantenere tale qualità soprattutto ai fini fiscali) nessun vantaggio economico per sé perché tali vantaggi (come gli eventuali svantaggi) appartengono (in aderenza alla convenuta finalità negoziale) unicamente sempre e solo alle imprese consorziate”.
Pertanto, “le operazioni della società consortile, nei confronti del fisco, sono operazioni proprie delle società che l’hanno costituita, sicché tale società per sua natura, scopo e funzione, deve indefettibilmente operare, nei rapporti con le imprese consorziate per trasparenza”.

Questo l’importante principio di diritto affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 13295 del 17 giugno, con la quale la Suprema corte - chiamata a pronunciarsi in ordine alla legittimità della procedura di contabilizzazione dei costi e dei ricavi di un consorzio operante su tutto il territorio nazionale - ha ritenuto condivisibile la premessa in diritto sulla quale si fondava integralmente la pretesa erariale, chiarendo aspetti fondamentali per la definizione di tutte le controversie ancora aperte instaurate - con riferimento alle proprie speculari posizioni - delle singole consorziate.

La vicenda
La controversia nasce da una verifica fiscale effettuata nei confronti di una società consortile nel corso della quale era emerso che il consorzio verificato aveva adottato una procedura anomala (rispetto a enti della stessa natura) di contabilizzazione dei costi e dei ricavi nonché della documentazione delle operazioni attive e passive ai fini Iva svolte nei confronti dei soggetti consorziati.
Il consorzio in questione, nell’esercizio della propria attività, acquisiva commesse che in parte eseguiva in proprio - anche avvalendosi di soggetti terzi rispetto alle consorziate - e in parte affidava alle imprese consorziate.

Per le commesse o per la parte di commesse eseguite dalle consorziate, l’ente fatturava al committente il prezzo integrale pattuito e, a sua volta, versava alle consorziate (e si faceva fatturare dalle medesime) una somma inferiore, con una decurtazione - quantificata sino al 25% - imputata alla copertura dei costi di gestione del consorzio.
Quanto alle commesse eseguite direttamente (anche per il tramite di soggetti non consorziati), il consorzio ometteva di ribaltare formalmente sulle consorziate, in proporzione alla quota consortile di ciascuna, gli utili e i costi, e ciò a dispetto del carattere di neutralità che il Codice civile gli assegna.

L’ufficio accertatore contestava tale modalità di contabilizzazione muovendo dal presupposto che il consorzio, ai sensi dell’articolo 2602 cc, persegue uno scopo mutualistico e non di lucro, ragion per cui avrebbe dovuto - vista la sua natura e funzione - ribaltare integralmente sulle consorziate sia i costi che i ricavi.
Fermo tale obbligo, l’ufficio accertatore rilevava che, se nel caso di specie la realtà dei rapporti tra il consorzio e le imprese consorziate non aveva visto realizzarsi formalmente alcun ribaltamento dei ricavi e costi, ciò non era ascrivibile al fatto che fosse possibile decidere di non effettuarli, ma era dovuto al fatto che, sostanzialmente, tali ribaltamenti erano stati occultati ricorrendo a un meccanismo di compensazione reciproca degli utili spettanti alle consorziate e dei costi a cui le stesse dovevano partecipare, sfuggendo così agli obblighi di fatturazione e autofatturazione e ai conseguenti obblighi impositivi.
Il consorzio, pertanto, secondo l’organo accertatore, in coerenza con la natura dell’attività svolta, era tenuto ad adottare una diversa modalità di fatturazione e contabilizzazione dei proventi e delle spese.

Più in particolare, richiamando la risoluzione 888/1986, l’ufficio ribadiva che il rendiconto del consorzio – che assolve sostanzialmente la funzione del conto economico – doveva essere interessato, nel dare, dai costi di gestione e di esercizio e, nell’avere, dai contributi periodici versati dalle imprese, i quali rappresentano i ricavi del consorzio, e non doveva invece essere interessato dalle somme corrisposte dall’ente appaltante: somme che, riversate dal consorzio pro quota alle imprese consorziate, ne costituiscono i ricavi e contrapponendosi ai costi (comprensivi dei contributi periodici versati al consorzio) fanno sì che il risultato positivo o negativo dell’appalto si realizzi direttamente in capo alle singole imprese.

Ai fini dell’imponibilità Iva, infine, i verificatori ribadivano che assumeva particolare rilievo il fatto che il consorzio operasse quale mandatario senza rappresentanza ossia nell’interesse ma non nel nome dei consorziati.
In ragione di ciò, i terzi che fornivano beni e servizi erano tenuti a eseguire la fatturazione (ex articolo 3, comma 3, Dpr 633/72) nei confronti del consorzio, il quale avrebbe dovuto provvedere successivamente alla ripartizione pro quota tra i consorziati degli oneri sostenuti, emettendo le relative fatture e riaddebitando l’imposta pagata. Mentre nelle ipotesi di operazioni attive il consorzio stesso, agendo solo per conto e non per nome dei singoli consorziati, avrebbe dovuto, con normale fattura, assoggettare a Iva i compensi corrisposti dai terzi; a loro volta, le consorziate, all’atto della ripartizione dei compensi di loro pertinenza, avrebbero dovuto fatturare con Iva al consorzio.

Come si è detto, le modalità di fatturazione sopra esposte non sono state rispettate dal consorzio né dalle consorziate, i quali hanno effettuato una sorta di compensazione tra le operazioni attive e passive, documentando solo l’importo pari alla differenza.

Il giudizio di merito
Con la sentenza 31/1/2011, la Ctr di Torino aveva disatteso le argomentazioni dell’ufficio ritenendo corretto il modus operandi del consorzio asserendo che la soluzione contabile prospettata dall’ufficio non fosse applicabile nel caso specifico dal momento che non tutte le consorziate partecipavano alle commesse e che non era stata provata la formale ripartizione tra le consorziate dei costi.
In aggiunta a ciò, i giudici di seconde cure ribadivano che “Sul piano delle commesse ricevute direttamente dal consorzio è ben possibile che quest’ultimo contragga con i committenti ad un prezzo diverso rispetto al correlativo contratto intercorso tra il medesimo consorzio e la singola impresa consorziata, nel quale il compenso stabilito per quest’ultima può essere inferiore a quello convenuto con la committenza. Tale differenza rappresenta il vantaggio economico che il consorzio ritrae per sé dall’affare e concorre, quale componente positivo, a formare il proprio reddito d’impresa e solo tale importo differenziale deve essere assoggettato ad IVA in applicazione di quanto disposto dall’articolo 13 comma 2 lettera b) del DPR 633/72 per le prestazioni rese dal mandatario senza rappresentanza”.

La sentenza
Con la sentenza in commento, la Suprema corte, richiamando alcuni suoi precedenti in materia (Cassazione 22790/2009 e 16410/2008), ha ribadito l’importante principio, già riportato, per cui “le operazioni della società consortile, nei confronti del fisco, sono operazioni proprie delle società che l’hanno costituita, sicché tale società per sua natura, scopo e funzione, deve indefettibilmente operare, nei rapporti con le imprese consorziate per trasparenza”, con ciò superando le argomentazioni poste dai giudici di merito a fondamento della loro decisione e chiarendo, definitivamente, che l’obbligo del ribaltamento dei costi e dei ricavi non deve essere dimostrato dall’amministrazione e non deriva dalla particolare realtà dei rapporti tra consorzio e consorziate, ma è diretta conseguenza delle norme di legge che disciplinano i consorzi, vale a dire della loro natura di enti che non perseguono fine di lucro.

In altre parole, con la sentenza in commento, si ribadisce che è la legge che, per la particolare natura e per il particolare ruolo del consorzio, impone che tutti i costi e gli utili siano ribaltati e ciò indipendentemente dalla partecipazione della singola impresa alle commesse che hanno generato gli utili e determinato i costi e a prescindere da qualunque diversa previsione statutaria o prassi contabile.

Sotto quest’ultimo aspetto, rileva in particolare quanto chiarito dai giudici di legittimità nella parte motiva della sentenza in cui - riprendendo il principio espresso in occasione della sentenza 18113/2003 per cui “se non può escludersi che a determinati effetti l’inserimento della causa consortile in una certa struttura societaria possa comportare un’implicita deroga ad alcune disposizioni altrimenti applicabili a quel particolare tipo di società quando l’applicazione di quelle disposizioni si rivelasse incompatibile con aspetti essenziali del fenomeno consortile, di certo non si può ammettere che ne vengano stravolti i connotati fondamentali del tipo societario prescelto, al punto da renderlo non più riconoscibile rispetto al corrispondente modello legale” - hanno affermato, tuttavia, che il medesimo, tenuto conto della natura pubblicistica (fiscale) della controversia, va condiviso e ribadito nei limiti in cui “i connotati del tipo societario prescelto, ritenuti fondamentali non finiscano per eliminare o anche solo per eludere nella sostanza la causa consortile”,fermo restando che la non corrispondenza di tale causa alla realtà effettiva “può assumere rilievo in particolare ai sensi dell’art. 1344 cod. civ (“si reputa altresì illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”) se tesa a violare norme tributarie attesa l’imperatività propria di queste”.

Quanto infine alle affermazioni della Ctr sull’applicazione nel caso di specie dell’articolo 13, comma 2, lettera b), la Cassazione, muovendo dal tenore letterale della norma in questione, ha chiarito - con motivazione destinata ad avere notevole rilevanza nella gestione di gran parte dei contenziosi in atto instaurati dalle consorziate - che “la provvigione del mandatario (quando effettivamente dovuta) a fini fiscali acquista giuridica evidenza solo se ha una sua univoca e chiara rappresentazione prima contabile e poi fiscale come tale nelle scritture del mandatario e del mandante”, fermo restando che, “attesa la posizione di terzo dell’erario, si deve sempre allegare e provare che vi è stata richiesta ed effettiva corresponsione di una provvigione al consorzio almeno da parte della impresa consorziata interessata dall’esecuzione di opere acquisite dallo stesso”.


Fonte: Agenzia Entrate

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