Con la sentenza 13289 del 17 giugno, la Corte di cassazione, sovvertendo la decisione della Commissione tributaria regionale impugnata, ha legittimato valenza reddituale allo specifico indice rivelatore costituito dal possesso, nella specie, di tre autovetture e di altri beni indice di capacità contributiva.

La pronuncia ha anche aggiunto che la connotazione di presunzione semplice e la necessità di esperire il preventivo contraddittorio sono entrambi principi che vincolano il “vecchio” redditometro alle regole previste per il futuro nuovo strumento accertativo.

Il fatto
La vicenda riguarda un avviso di accertamento da redditometro emesso a carico di un contribuente, che non aveva presentato la dichiarazione dei redditi, con il quale l’ufficio ha accertato sinteticamente il reddito complessivo di quell’anno, in applicazione dei coefficienti previsti dalle norme (decreti ministeriali 10 settembre e 19 novembre 1992; articolo 38, comma 4, del Dpr 600/1973, nella versione applicabile fino al periodo d'imposta 2008, ossia prima delle modifiche apportate alla materia dall’articolo 22, del Dl 78/2010).

Il contribuente, esercente attività di impresa, pur avendo nel periodo considerato la disponibilità di automobili e realizzato incrementi patrimoniali (possesso di una casa di abitazione e di un’assicurazione), aveva risposto negativamente a un questionario (anzi, certificando la vendita dei beni mobili) con il quale l’ufficio richiedeva “ulteriori” precisazioni in relazione a documenti già in suo possesso.

L’atto impositivo veniva impugnato in Commissione tributaria provinciale, lamentando violazione dello Statuto del contribuente (legge 212/2000) nel punto in cui sancisce espressamente il divieto di chiedere, con il questionario, chiarimenti su dati già in possesso dell’Amministrazione finanziaria (articolo 6, comma 4). Tesi, questa, accolta dal primo giudice di merito e confermata in appello, ove la Commissione del riesame ha sancito l’illegittimità del questionario – e, di conseguenza, dell’atto impugnato – principalmente per la circostanza che i dati e documenti richiesti erano già conosciuti dall’ufficio. Sicché quest’ultimo avrebbe apertamente violato, da un lato, l’articolo 6, comma 4, dello Statuto del contribuente e, dall’altro, la normativa di settore, dato che i beni posseduti dal contribuente non costituirebbero “indici di spesa” per giustificare l’accertamento redditometrico ma beni “strumentali” inerenti l’attività d’impresa esercitata.

Avverso l’ultima decisione l’Amministrazione presenta ricorso in Cassazione, articolandolo in una svariata serie di motivi, con i quali denuncia, tra l’altro, la sentenza impugnata:
per violazione dell’articolo 32, comma 1, n. 4, Dpr 600/1973, in quanto, con tale disposizione, il legislatore ha inteso rimarcare che i dati e le notizie richieste devono essere rilevanti e soprattutto specificati in modo che al contribuente sia consentito l’agevole esercizio del proprio diritto di difesa. Per dette ragioni, la pluralità dei dati e notizie richieste nel questionario non solo non sono in contrasto con il canone legale della specificità, ma al contrario connotano necessariamente il paradigma normativo, proprio perché l’ufficio deve rendere edotto il contribuente che si tratta di elementi basilari ai fini dell’accertamento
perché non sussiste violazione dell’articolo 6 dello Statuto del contribuente, atteso che il questionario dell’ufficio ha riguardato notizie per tutti i beni o servizi di cui alla tabella allegata al Dm del settembre 1992, per cui la richiesta doveva necessariamente essere riferita anche agli elementi già in suo possesso, al fine di consentire al contribuente di provare che il maggior reddito determinabile sinteticamente era costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta. In tal modo, al contribuente veniva consentito di addurre elementi a proprio favore anche su tale documentazione già agli atti. Al massimo, l’illegittimità dell’invito dovrebbe intendersi limitata alla sanzione applicata per l’omessa risposta al questionario, ma non penalizzare la disposizione che prevede l’inutilizzabilità di notizie, dati o documenti non forniti in sede amministrativa e non in possesso dell’ente impositore (ex articolo 32, comma 4, del Dpr 600/1973).
Altro punto importante toccato dal ricorso attiene alla valenza ontologica dell’articolo 38 del Dpr 600/1973, considerato che l’accertamento sintetico con metodo induttivo consiste nell’applicazione di presunzioni semplici, in virtù delle quali l’ufficio è legittimato a risalire da un fatto noto (l’esborso di rilevanti somme di denaro per l’acquisto di beni) a un fatto ignoto (la sussistenza di un certo reddito e, quindi, di capacità contributiva). Detta presunzione genera l’inversione dell’onere della prova, trasferendo al contribuente il dovere di dimostrare che il fatto addotto dall’ente impositore non corrisponde alla realtà.

Motivi della decisione
Con la variegata sentenza 13289/2011, la Suprema corte afferma, sostanzialmente, che va riconosciuto valore reddituale ai beni che il contribuente ha dichiarato in risposta al questionario. Soluzione che merita la disapprovazione dell’operato della Commissione del riesame che si era limitata a escludere ogni valenza reddituale allo specifico indice rivelatore quale il possesso delle automobili e degli incrementi patrimoniali.
E ribadisce, al riguardo, il principio di diritto secondo cui il divieto – posto dalla legge 212/2000 – di richiedere al contribuente documenti e informazioni già in possesso dell'Amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche, di per sé, non esclude il potere dell’ufficio di chiedere, oltre a documenti e informazioni non in suo possesso (o in possesso di Amministrazioni terze), soprattutto specificazioni su notizie da esso già conosciute. Questo per dare concretezza ed effettività al contraddittorio, al fine di adeguare l’elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente. Perciò va riconosciuto valore reddituale ai beni dichiarati in risposta al questionario.

A tale risultato si perviene alla luce del canone affermato ripetutamente dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sentenze 8738/2002, 2656/2007 e 21661/2010), secondo cui il richiamato articolo 38, che disciplina i criteri di rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche, prevede che il controllo della congruità delle stesse venga effettuato partendo da dati certi e utilizzando gli stessi come indici di capacità di spesa per dedurne, avvalendosi di specifici e predeterminati parametri di valorizzazione (redditometro), il reddito presuntivamente necessario a garantirla.
Quando il reddito determinato in tal modo si discosta da quello dichiarato per almeno due annualità l’ufficio può procedere all’accertamento con metodo sintetico determinando il reddito induttivamente e, quindi, utilizzando i parametri indicati a condizione che il reddito così calcolato sia superiore di almeno un quarto a quello dichiarato.
L’unico onere dell’ufficio è quello di individuare elementi certi indicatori di capacità di spesa, mentre i coefficienti presuntivi vengono utilizzati sia al fine di accertare l’incongruità del reddito dichiarato sia per determinare sinteticamente quello da accertare. Naturalmente, il contribuente può, oltre che contestare il possesso degli indicatori di capacità di spesa, provare, con idonea documentazione, che il maggior reddito determinato (o determinabile) sinteticamente è costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte. Infatti, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora il contribuente, in sede di risposta ad apposito questionario, ammetta la proprietà e l’utilizzazione di determinati beni, indici di capacità contributiva, ha l’onere di provare in modo rigoroso che tali beni appartengono a terzi e sono da questi utilizzati, restando altrimenti esposto alle conseguenze previste in tema di accertamento presuntivo del reddito della propria dichiarazione (Cassazione 8738/2002).

La Corte è approdata a queste conclusioni dopo aver manifestato di aderire a quel consolidato orientamento del “diritto vivente” espresso in materia (Cassazione, sentenze 26635-26638/2009, 22552-22555/2010, 12558/2010, 13594/2010, 21661/2010 e 10778/2011), in base al quale è stato in sostanza affermato che:
la procedura di accertamento standardizzato, mediante l’applicazione di parametri e studi di settore, costituisce un insieme di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza di dette presunzioni non è ex lege predeterminata, ma nasce in esito al contraddittorio con il contribuente
il contraddittorio è uno strumento indefettibile all’interno del procedimento e la mancata attuazione dello stesso provoca la nullità degli avvisi di accertamento emessi in sua assenza
la costruzione della motivazione dell’accertamento deve richiamare gli elementi emersi e valutati in sede di contraddittorio, mentre può limitarsi al solo richiamo degli standard esclusivamente nel caso di mancata presentazione del contribuente regolarmente convocato.
La Suprema corte sottolinea ancora che il contribuente ha l’onere, nelle sedi amministrativa e processuale, di contestare puntualmente l’applicazione dei coefficienti parametrici, nonché di allegare e provare specifiche situazioni che renderebbero inadeguati al proprio caso gli standard considerati (Cassazione 12786/2011).

A supporto delle conclusioni del Collegio di legittimità, è interessante richiamare anche l’ordinanza 181/2007 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità dell’articolo 32, comma 4, del Dpr 600/1973, sollevata in riferimento all’articolo 53, comma 1, della Costituzione, in quanto la preclusione prevista dalla norma censurata, risolvendosi in un divieto di allegazione in giudizio dei dati e dei documenti non forniti dal contribuente in risposta all’invito dell’Amministrazione finanziaria, opera sul piano esclusivamente processuale ed è perciò inidonea a menomare il principio di capacità contributiva.
In altri termini, l’evidente grossolano errore in cui è caduta la Commissione del riesame è data dalla circostanza di aver proceduto all’annullamento degli atti impositivi, con la cui assunzione ha “immotivatamente” escluso ogni valenza reddituale allo specifico indice rivelatore dato proprio dal possesso, confermato dal contribuente in risposta al “questionario” di beni indici di capacità contributiva (autovetture).

Ciò vuol dire, in ultima analisi che, per escludere il fatto indice dal novero dell’accertamento redditometrico, non è sufficiente l’affermazione non dimostrata di utilizzo dei beni nell’esercizio di impresa, in quanto trattasi di elementi rilevatori di capacità contributiva riferita non al fatto in sé, ma all’acquisto – considerato nel suo complesso – e in relazione ai mezzi (non dichiarati) per farvi fronte.


Fonte: Agenzia Entrate

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