La mancata dichiarazione dei pagamenti corrisposti alla lavoratrice e l’omesso versamento della ritenuta si configurano come inadempimenti sia per la società datrice di lavoro sia per la stessa lavoratrice, con la conseguenza che il soggetto obbligato al pagamento del tributo è comunque anche il dipendente contribuente. E ciò a prescindere dall’esistenza di un accordo tra datore di lavoro e lavoratore per occultare al fisco le retribuzioni.
Lo ha affermato la Corte di cassazione con sentenza 9867 del 5 maggio.

Com’è andata
L’ufficio dell’Agenzia delle Entrate ha recuperato a tassazione, ai fini Irpef, i redditi percepiti da una lavoratrice nel 1996 e non dichiarati, irrogando altresì le relative sanzioni.
Il recupero trae origine dalle ricevute autografe della signora attestanti i pagamenti effettuati “in nero” dalla società datrice di lavoro, rinvenute e acquisite nel corso di una verifica fiscale a carico della stessa società.

La Commissione tributaria regionale, confermando la decisione di primo grado, ha annullato l’avviso di accertamento dell’ufficio, rilevando l’inesistenza sia di un accordo tra datore di lavoro e lavoratore per non dichiarare gli emolumenti in questione, sia di un obbligo di controllo delle scritture contabili del datore di lavoro da parte della lavoratrice. A parere dei giudici di merito, la signora non poteva sapere se era stato operato il versamento delle ritenute e, inoltre, la sua buona fede poteva giustificare l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi derivanti dal suo unico rapporto di lavoro.

Non dello stesso avviso l’Agenzia delle Entrate, che ha proposto ricorso per cassazione denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 41 e 64 del Dpr 600/1973, dell’articolo 51 (ex articolo 48) del Dpr 917/1986 e dell’articolo 10 della legge 212/2000, unitamente al vizio di insufficiente motivazione della sentenza di secondo grado.

La Corte suprema, con la sentenza 9867/2011, ha statuito che “in presenza dell’obbligo di effettuare ‘la ritenuta di acconto (diretta, in sé, ad agevolare non solo la riscossione ma anche l’accertamento degli obblighi del percettore del reddito), l’intervento del ‘sostituto’ lascia inalterata la posizione del ‘sostituito’, il quale è specificamente gravato dell’obbligo di dichiarare i redditi assoggettati a ritenuta, poiché essi concorrono a formare la base imponibile sulla quale, secondo il criterio di progressività, sarà calcolata l’imposta dovuta, detraendosi da essa la ritenuta subita come anticipazione del prelievo. Da ciò consegue che, quando la ritenuta non sia stata operata su emolumenti che pur costituiscono componente di reddito, alla omissione il percettore dovrà ovviare, dichiarando i relativi proventi e calcolando l’imposta sull’imponibile alla cui formazione quei proventi hanno concorso’ (Cass. 2212/2000; conf. 16092/2000, 10057/2000, 1081/2003)…”.

Osservazioni
Due i limiti di merito superati dal giudice di legittimità. L’interpretazione delle istruzioni ministeriali con riferimento ai casi di esenzione dalla compilazione della dichiarazione annuale dei redditi, assieme ad altre circostanze di fatto, e la buona fede, sia come principio generale previsto dall’articolo 10, della legge 212/2000, sia come presunzione, da parte della contribuente, della correttezza fiscale del datore di lavoro.

La dipendente ha interpretato tali istruzioni ministeriali, impartite ai contribuenti per la denuncia annuale dei redditi, nel senso che per i soggetti dipendenti da un unico datore di lavoro, tenuti al versamento delle ritenute d’acconto sui redditi percepiti e non obbligati alla compilazione della dichiarazione, la disposizione di esenzione non distingue affatto tra percezione dei redditi in nero e in modo regolare. A questo riguardo, la contribuente ha precisato che il lavoratore non è tenuto ad accertare né se il proprio datore di lavoro tenga o meno regolarmente la contabilità né se ha versato le ritenute d’acconto.
Tale circostanza, di fatto, è stata considerata irrilevante, poiché l’ufficio, anche nei gradi di merito, ha precisato che la disposizione esonerativa concerneva soltanto il caso di retribuzioni regolarmente corrisposte con il versamento delle ritenute da parte del datore di lavoro sostituto di imposta e non invece l’acquisizione di compensi, a seguito di gestione della società senza la regolare tenuta dei libri contabili e senza la corresponsione delle ritenute erariali.

Non ha avuto sorte migliore, per la Corte suprema, l’affermazione che la violazione delle disposizioni concernenti la consegna, alla dipendente, della busta paga e del modello da cui risulta il pagamento delle ritenute, è sanzionata soltanto a carico del datore di lavoro e non del prestatore di lavoro, a meno che non si dimostri l’esistenza di un accordo di frodare la legge, occultando al fisco le retribuzioni.
Del resto, anche “l’eventuale dissenso del lavoratore sostituito sull’assoggettabilità ad imposta di un qualche emolumento corrisposto dal datore di lavoro non elide l’obbligo del sostituto di imposta di operare la ritenuta che egli reputa dovuta e di denunziarla (oltre che di versarla) come tale all’Erario per il quale, quindi, il dissenso del sostituito è del tutto indifferente…” (Cassazione, sentenza 4314/2007).
Il datore di lavoro, infatti, è tenuto a operare la ritenuta a titolo di acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche negli specifici casi, previsti dal Tuir e indicati nell’articolo 23, comma 1, del Dpr 600/1973, assumendo in tal modo una duplice veste. Oltre che sostituire il contribuente nell’adempimento dell’obbligo tributario di versamento dell’imposta (obbligo che resta in tal modo agevolato), svolge anche un’attività di “accertamento” dell’obbligo del percettore del reddito, operando tale ritenuta dopo aver verificato la sussistenza dei presupposti di legge per effettuarla.

Ma tale obbligo non è esclusivo per il datore di lavoro, con esonero del lavoratore.
Come affermato nella sentenza in esame, infatti, è errata in diritto la conclusione che la contribuente/lavoratrice sia esonerata da ogni obbligo fiscale, per il solo fatto che vi è l’obbligo primario del sostituto.

Pacifico, in punto di fatto, che la signora abbia percepito dalla società datrice di lavoro compensi non dichiarati, in punto di diritto, la Corte ha ribadito il principio secondo cui “in caso di mancato versamento della ritenuta d’acconto da parte del datore di lavoro, il soggetto obbligato al pagamento del tributo è comunque anche il lavoratore contribuente” (Cassazione, sentenze 8504/2009 e 5020/2003).
E ciò anche se la contribuente ha affermato di aver agito in buona fede. Non può essere sanata, infatti, l’omissione delle ritenute erariali dalla circostanza che la signora non sapeva che le stesse non erano state corrisposte, anche perché aveva confidato nel comportamento della società amministrata da un libero professionista iscritto in un albo.
Sulla base del principio dell’affidamento e della buona fede (ex articolo 10, comma 1, legge 212/2000), la lavoratrice avrebbe dovuto adempiere tempestivamente e correttamente a tutti gli obblighi tributari.

In tema di sostituzione cosiddetta “impropria” (articolo 64, Dpr 600/1973), “in forza di disposizioni di legge”, un soggetto è tenuto “in luogo di altri” (cui si riferiscono i fatti generatori d’imposta) al pagamento dell’imposta a titolo di acconto, con obbligo di rivalsa, attraverso la ritenuta. Tuttavia, “a differenza di quanto avviene nell’ipotesi di ritenuta d’imposta - vera e propria imposta sostitutiva, rispetto alla quale la posizione del ‘sostituito’ ben può dirsi residuale e diviene operante se sia stata accertata l’omissione del ‘sostituto’ in ordine sia a ritenuta che a versamento - nella ritenuta di acconto,…, l’intervento del ‘sostituto’ lascia inalterata la posizione del ‘sostituito’…” (Cassazione, sentenze 2611/2000 e 6292/2000), poiché, tra l’altro, le obbligazioni tributarie dei due soggetti sorgono in momenti diversi: quella del sostituto, avente ad oggetto il versamento, a titolo di acconto, dell’imposta alla fonte, nasce nel momento in cui matura il cespite reddituale del sostituito, mentre per il percettore del reddito, l’obbligazione di versamento potrà determinarsi, successivamente, in sede di dichiarazione dei redditi e, comunque, a consuntivo delle operazioni di liquidazione dei pagamenti ricevuti.

Ancora una volta, quindi, sui cespiti non dichiarati dal lavoratore sostituito, rispetto ai quali il sostituto non abbia operato la dovuta ritenuta, l’ufficio ha correttamente esercitato i normali poteri di controllo e accertamento, liquidando la maggiore imposta conseguente (Cassazione, 1161/2003).


Fonte: Agenzia Entrate

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