Nelle città a rilevante vocazione turistica molti esercizi, outlet e catene commerciali, sono soliti dedurre costi per prestazioni ricevute da agenzie di viaggi e tour operator che, in sostanza, convogliano i turisti a fare shopping presso gli stessi esercizi (shopping turistico). Cosa accade però se i tour operator in questione risultano residenti in paradisi fiscali?
E’ chiaro che in questi casi sarà applicabile la disciplina in tema di costi per prestazioni di servizi effettuate da fornitori localizzati in paesi extra-Ue a fiscalità privilegiata e che, pertanto, tali costi non saranno deducibili per presunzione legale relativa (salvo quindi prova contraria a carico del contribuente), ai sensi dell’articolo 110, comma 10, del Dpr 917/1986.

La prova contraria che il contribuente deve fornire, ai sensi del successivo comma 11 dello stesso articolo consiste, infatti, nelle seguenti prescrizioni: “Le disposizioni di cui al comma 10 non si applicano quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un'attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione”.

Con riferimento al requisito dell’attività commerciale effettiva, come anche indicato nella risoluzione 100/2009: “ai fini di tale dimostrazione, si ritiene che l’impresa estera in tanto potrà considerarsi effettivamente localizzata in territorio a fiscalità privilegiata in quanto abbia stabilito con quel territorio rapporti di tipo economico, politico, geografico o strategico. In altri termini, è necessario che detta impresa risulti effettivamente radicata nel territorio estero di localizzazione, in modo da partecipare in maniera stabile e continuativa alla vita economica di quest’ultimo.[...]L’esistenza soltanto della sede ovvero dell'attività decisionale della società non è, conseguentemente, sufficiente a far sì che la stessa attività possa considerarsi effettivamente svolta nel territorio ai sensi dell'art. 110, comma 11 del TUIR”.

Anche se è vero che, con la successiva circolare 51/2010, tale impostazione è stata comunque approfondita, specificando come “l’espresso riferimento “al mercato dello stato o territorio di insediamento”, ora presente nell’ambito della prima esimente prevista per la disapplicazione della CFC rule, assente invece nell’analoga esimente di cui all’articolo 110, comma 11, del Tuir, va ritenuto un chiaro indizio della volontà del legislatore di differenziare le modalità di disapplicazione delle due discipline …”, essendo dunque da ritenere “che il c.d. radicamento previsto ai fini CFC non costituisce un elemento dirimente ai fini della disapplicazione delle disposizioni in materia di deducibilità di costi black list …”, è anche vero che la stessa circolare pone in evidenza come “la sussistenza del radicamento, pur non essendo determinante ai fini del riconoscimento della disapplicazione della disciplina in commento, costituisce tuttavia un elemento senz’altro utile a dimostrare l’esimente stessa” ai fini della disapplicazione della disciplina in tema di costi black list.
Pertanto, appare chiaro che il radicamento territoriale, elemento tipico della disciplina Cfc, può assumere in ogni caso rilevanza probatoria ai fini della dimostrazione (o non dimostrazione) dell’esimente espressamente richiesta dall’articolo 110.

Dal punto di vista della prova contraria che il contribuente deve fornire in ordine allo svolgimento da parte dell’impresa con sede nel Paese black list di “un’attività commerciale effettiva”, infatti, appare chiaro che, se tale radicamento non sussiste, sarà anche difficile provare lo svolgimento un’attività commerciale effettiva nello stesso territorio.
Altro requisito necessario, ai fini dell’eventuale prova contraria è l’effettivo interesse economico sottostante alle operazioni realizzate e la concreta esecuzione delle stesse operazioni.
Per quanto concerne, in particolare, l’effettivo interesse economico e cioè la prova che lo svolgimento delle operazioni in un paradiso fiscale anziché in un Paese non black list non sia dovuto a ragioni di interesse fiscale, ma sia sorretto da valide e concrete ragioni economiche, il contribuente dovrà effettuare un riscontro dei prezzi relativi alle prestazioni in questione, comparandoli con analoghe prestazioni di servizi effettuate nello stesso periodo da altre imprese.
In ogni caso, l’interesse economico sottostante le operazioni commerciali non deve essere ricondotto solo all’acquisto di servizi a prezzi di mercato, bensì a un concetto più ampio. Si ricorda, a tal proposito, richiamando la risoluzione 46/2004, che la parte “dovrà pertanto acquisire e conservare tutti i documenti utili per poter risalire alla logica economica sottesa alla scelta di instaurare rapporti commerciali con un fornitore residente in un Paese a fiscalità privilegiata. È utile sottolineare come tale scelta imprenditoriale deve essere sorretta da una valida giustificazione di tipo economico a beneficio della specifica attività imprenditoriale, connessa - in modo particolare - con l'entità del prezzo praticato, la qualità dei prodotti forniti e la tempistica e puntualità della consegna”.

La prova contraria dovrà quindi essere puntuale e rigorosa e, tornando all’esempio da cui siamo partiti, non potrà certo limitarsi, in relazione allo svolgimento effettivo di attività commerciale nel Paese black list, all’indicazione dei siti internet delle agenzie viaggi.
Come se, peraltro, la realtà virtuale di un sito internet (che, come noto, può essere artificiosamente creato in qualche ora anche da un qualsiasi pc, magari in Italia) corrisponda alla realtà effettiva delle cose.
Va bene che siamo nella cosiddetta era internet, ma, in particolare in ambito giudiziario e in un contesto di contrasto all’evasione fiscale internazionale (perché di questo si tratta), è meglio non perdere il contatto con la realtà, quella vera, che necessita di prove documentali e “fisiche” di ben altro livello: bilanci convalidati, dichiarazioni consolari in loco, documentazione sui dipendenti eccetera.

Per superare la suddetta presunzione legale, quindi:
non è sufficiente fornire prova dell’esistenza della società estera da un punto di vista meramente formale
la dimostrazione deve riguardare l’esercizio effettivo di un’attività commerciale tra quelle contemplate dall’articolo 2195 c.c.
deve essere provata l’esistenza di una adeguata struttura organizzativa.

Per far questo, un primo punto di partenza sarà senz’altro costituito dall’esibizione di alcuni documenti fondamentali:
atto costitutivo o statuto sociale della società estera, da cui possano ricavarsi notizie utili circa l’attività svolta nello Stato incluso nella black list
bilancio pubblicato, dal quale possano essere acquisiti una serie di elementi costitutivi di sostanza, quali, ad esempio, l’esposizione di ricavi apprezzabili, esistenza di clienti e fornitori, disponibilità finanziarie, debiti e crediti, rimanenze, eccetera
iscrizione al locale registro delle imprese, debitamente convalidata dagli organi consolari italiani in loco
normativa e delibere disciplinanti gli organi sociali e le loro attività
nomina amministratori e attribuzione dei relativi poteri
relazione descrittiva dell’attività svolta, debitamente convalidata dagli organi consolari italiani in loco
contratti di lavoro dei dipendenti che indicano il luogo di prestazione dell’attività lavorativa e le mansioni svolte
conti correnti bancari aperti presso istituti locali
gli estratti conto bancari che diano evidenza delle movimentazioni finanziarie relative alle attività svolte
una copia dei contratti di assicurazione relativi ai dipendenti e agli uffici; le autorizzazioni sanitarie e amministrative relative all’attività e all’uso dei locali.

In riferimento poi all’effettivo interesse economico, il contribuente, nel fornirne la prova, non dovrà commettere l’errore di ritenere che tale requisito coincida con quello dell’inerenza.
Il concetto di “effettivo interesse economico”, ai fini della disciplina in esame in tema di costi black list, è infatti ben diverso rispetto al concetto di inerenza, in particolare laddove l’interesse economico, che qui rileva, corrisponde alla scelta imprenditoriale “sorretta da una valida giustificazione di tipo economico a beneficio della specifica attività imprenditoriale, connessa – in modo particolare – con l’entità del prezzo praticato, la qualità dei prodotti finiti e la tempistica e puntualità di consegna”da svolgersi nel Paese black list.

In definitiva, la dimostrazione del vantaggio economico conseguito (onere del contribuente) può avvenire solo confrontando l’operazione posta in essere con operazioni alternative e di analoga natura, dimostrando che quella realizzata è più conveniente delle altre, e non tanto che è più profittevole porre in essere una certa operazione piuttosto che non realizzare niente.

In conclusione, occorre considerare che il dato essenziale, derivante dall’articolo 110, del Dpr 917/1986, è che il legislatore considera con sfavore le operazioni economiche tra imprese residenti e imprese con sede in Stati con regimi privilegiati. L’esordio dell’articolo 110 è significativo e inequivocabile, nel senso che le spese e gli altri componenti negativi in questione non sono ammessi in deduzione. Con l’effetto che la deduzione dei costi è ammessa in via di eccezione solo se il contribuente esibisce la prova che le imprese estere svolgono un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono a un effettivo interesse economico e hanno avuto concreta esecuzione.
Ne consegue che, ove manchi anche una sola delle condizioni cui è subordinata l’eccezione, si applica la regola del divieto.
In mancanza di tale prova, non sarà superata la regola generale dell’indeducibilità di tali costi.
Il profilo di rischio, per combattere il quale la presunzione è stata introdotta, attiene infatti alla circostanza che tali operazioni sono state realizzate in paradisi fiscali.

L’interesse economico oggetto di dimostrazione, quindi, va valutato in relazione alla motivazione per la quale si è scelto come partner commerciale proprio una società sita in un paradiso fiscale, anziché una società sita in Paesi che non costituiscono paradisi fiscali.
Il fatto già che si sia scelto Bermuda o Hong Kong o un qualsiasi altro paradiso fiscale, laddove le esimenti che possono giustificare tale scelta non vengano espressamente provate e documentate, è già stato considerato dal legislatore (con presunzione legale) elemento sufficiente a disconoscere i costi.


Fonte: Agenzia Entrate

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