Il D.Lgs. n. 81/2008, nella sua opera di integrazione e coordinamento della previgente disciplina normativa, riprende nella sostanza i principi ispiratori dei decreti settoriali degli anni “50 che, per la prima volta, avevano affrontato il tema dell'individuazione dei soggetti responsabili.
Viene, anzitutto, in rilievo la disposizione dell'art. 2 del TUS, nella quale non soltanto confluiscono in buona parte le definizioni corrispondenti a quelle contenute nell'abrogato D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, ma fanno anche la loro comparsa alcuni contenuti precettivi di un certo spessore.
Tanto per fare un esempio, il D.Lgs. n. 626/1994 forniva una definizione - definita in dottrina (1) - “ellittica” di dirigente (ossia coloro i quali dirigono le attività soggette alla normativa prevenzionale ex art. 1, comma 4-bis), senza soffermarsi minimamente sulla figura del preposto, diversamente il nuovo TUS fornisce una puntuale definizione di ambedue le controverse figure, specificandone in maniera puntuale le relative posizioni di garanzia, conformemente all'insegnamento giurisprudenziale di legittimità, in particolare qualificando come:
- dirigente
«persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa» (2)
- preposto
«persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa.» (3)
Le definizioni di «dirigente» e di «preposto» sono totalmente inedite per il diritto positivo e le stesse - per come precisato nella stessa Relazione allo schema del decreto legislativo - recepiscono i risultati dell'elaborazione giurisprudenziale sulle due figure evocate (ma mai per l'appunto definite in precedenza) nell'art. 1 comma 4-bis del D.Lgs. n. 626/1994.
L'art. 2, lett. d) del decreto individua il primo nella persona che attua le direttive del datore di lavoro, organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa, mentre la lett. e) dello stesso art. 2 definisce il secondo come la persona la quale sovrintende all'attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa.
La definizione delle due figure assume rilevante importanza, atteso che dirigenti e preposti risultano titolari iure proprio (ai sensi degli artt. 18 e 19 del decreto) di numerosi obblighi in materia di sicurezza negli ambienti di lavoro, senza che sia necessaria una espressa delega in tal senso da parte del datore di lavoro, così come già era stato affermato in passato dalla giurisprudenza dominante nella vigenza del D.Lgs. n. 626/1994 (4).
In tale ottica si spiega dunque l'inciso presente in tutte e due le disposizioni citate, secondo cui le qualifiche di «dirigente» e «preposto» sono riconosciute normativamente solo a coloro che svolgono i compiti sopra descritti in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico loro conferito.
La precisazione mira a determinare il valore legale dell'inquadramento delle due figure nell'organizzazione aziendale sulla base di un criterio non meramente formale bensì sostanziale (ancora una volta in linea con i consolidati approdi della giurisprudenza formatasi con riferimento alla normativa previgente, secondo cui «il legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni non è responsabile allorché l'azienda sia stata preventivamente suddivisa in distinti settori, rami o servizi ed a ciascuno di questi siano stati in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, nonché dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la completa gestione degli affari inerenti a determinati servizi.») (5).
Riassunto il contesto normativo di riferimento risulta più agevole a questo punto comprendere l'effettivo significato dell'art. 299.
La disposizione, infatti, funge da norma di chiusura, cercando di evitare che l'intreccio delle qualifiche - pur corretto dall'illustrato criterio sostanziale - e il meccanismo della delega possano determinare vuoti di tutela o comunque concentrare le conseguenze penali in capo ai soggetti formalmente titolari della posizione di garanzia, senza tener conto di quelli che risultano di fatto aver assunto la responsabilità della sicurezza negli ambienti di lavoro, magari perché dotati dell'effettivo potere di garantire l'attuazione del sistema di prevenzione ideato dal legislatore.
La disposizione affronta dunque ex professo il problema di determinare il regime giuridico applicabile al soggetto che, pur non essendo investito formalmente della «funzione», la eserciti di fatto. E la giurisprudenza è, da tempo, orientata a riconoscere la responsabilità del datore di lavoro, del dirigente, del preposto “di fatto”, privilegiando il dato funzionale dell'attività in concreto svolta, rispetto a quello meramente formale dell'avvenuta investitura.
Tale prospettiva giurisprudenziale, volta a ricostruire le qualificazioni soggettive previste dalle fattispecie incriminatrici attraverso il precipuo riferimento alle concrete funzioni il cui esercizio è dalle stesse presupposto, ha trovato, dunque, esplicita conferma.
Ed in questo senso l'art. 299 si inserisce nel solco già tracciato dal legislatore in occasione della riforma dei reati societari del 2002, quando, nel riscrivere l'art. 2639 c.c., ha espressamente previsto che
«al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.»
Pertanto l'inquadramento di un dirigente o di un preposto nell'organizzazione aziendale ovvero il rilascio di una delega di funzioni non dovrebbero essere, ad esempio, sufficienti ad alleviare la posizione di garanzia del datore di lavoro - ed anzi la amplieranno con riguardo agli obblighi di cui non sarebbe formalmente destinatario - ogni qual volta questi si ingerisca di fatto nella gestione dei compiti assegnati allo stesso dirigente, allo stesso preposto o al delegato ben oltre i limiti del generale obbligo di vigilanza e supplenza comunque riservatogli dalla legge.
Ma più in generale la disposizione in commento sembra trasformare in autore tipico dei reati propri in materia antinfortunistica anche chi, pur privo di formale investitura (ad esempio perché munito di una delega che non presenti i requisiti previsti dall'art. 16), eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti anzidetti.
Da ultimo, va evidenziato che l'art. 299 non «trasferisce» la posizione di garanzia dal titolare di diritto al titolare di fatto della funzione, ma crea in capo al primo una nuova ed autonoma posizione di garanzia - generata dal concreto esercizio dei relativi poteri - che si assomma a quella originaria.
È questo infatti il senso che sembra doversi attribuire all'avverbio «altresì» utilizzato dal legislatore nel contesto della norma. E ciò implica che la responsabilità del datore di lavoro, dirigente e preposto di fatto non esclude la responsabilità di chi sia, invece, formalmente investito della relativa funzione, il quale non può utilmente pensare di essere esonerato dalla responsabilità penale semplicemente adducendo la presunta esistenza di un garante di fatto.
(1) La definizione è di N. Pisani, Profili penalistici del testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in Dir. pen. proc., 2008, p. 827 ss.
(2) V., antecedentemente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008, sui compiti del dirigente (Cass., sez. IV, n. 13915 del 16 gennaio 2008, C., in CED Cassazione 239586), secondo cui «la figura di dirigente presuppone l'esistenza di comportamenti ricorrenti, costanti e specifici dai quali desumersi l'effettivo esercizio di funzioni dirigenziali, come tali riconosciute in ambito aziendale, anche nel campo della sicurezza del lavoro, con poteri decisionali al riguardo» ed, ancora (Cass., Sez. IV, n. 7386 del 23 marzo 2000, C. ed altro, in CED Cassazione 216603) che aveva affermato come «anche un estraneo all'organigramma aziendale può assumere la figura di dirigente e come tale diventare destinatario della normativa antinfortunistica, ma ciò presuppone l'esistenza di comportamenti ricorrenti, costanti e specifici dai quali desumersi l'effettivo esercizio di funzioni dirigenziali, come tali riconosciute in ambito aziendale, anche nel campo della sicurezza del lavoro con poteri decisionali al riguardo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva ritenuto la responsabilità di un consulente esterno per i problemi finanziari e commerciali senza congrua motivazione sulla effettiva assunzione di responsabilità più vaste)».
(3) V., in giurisprudenza, sulla figura del preposto ante D.Lgs. n. 81/2008 (Cass., sez. IV, n. 3483 del 21 dicembre 1995 (dep. 5 aprile 1996 ), P.C. P. e altro, in CED Cassazione 204972), che aveva identificato in tale soggetto «colui che, nel suo settore, prende decisioni e sovrintende al lavoro eseguito da altri, pur potendo, ove occorra, contribuire alla realizzazione dello stesso. È da escludere, pertanto, che sia preposto l'operaio che fa parte di una squadra di pronto intervento, la quale può essere destinata ad una o ad altra attività lavorativa, e i cui componenti devono eseguire personalmente il lavoro, stando alle esclusive direttive altrui».
(4) Cass., sez. IV, 20 aprile 2005 n. 11351, Stasi ed altro, in CED Cassazione 233656; Cass., sez. IV, 6 dicembre 2007, dep. 8 febbraio 2008, n. 6277, P.M. in proc. O. e altro, in CED Cassazione 23874, in Dir. prat. lav., 2008, fasc. 27, p. 1555 con nota di S. Maretti, Servizio di prevenzione e protezione: funzioni e responsabilità.
(5) V., da ultimo, tra le tante: Cass., sez. IV, 28 settembre 2006, dep. 25 gennaio 2007, n. 2592, D.L. e altro, in CED Cassazione 235564.

Quanto, poi, alla figura del «datore di lavoro», già conosciuta nella previgente disciplina, è solo uno dei soggetti onerati della «posizione di garanzia», perché al rispetto della normativa cautelare sono chiamati - a vario titolo - anche altri soggetti, la cui posizione merita attenta considerazione perché non è immediatamente chiaro l'ambito di operatività della correlativa «posizione di garanzia».
Fermo restando quanto sopra, peraltro, la definizione di datore di lavoro individuata dal D.Lgs. n. 81/2008 merita pari attenzione per le ricadute sul fondamento della responsabilità penale del datore di lavoro quale «garante» della sicurezza aziendale. Sotto tale profilo, infatti, l'individuazione del fondamento «sostanziale» della posizione di garanzia in ambito infortunistico è ravvisabile nel criterio del «dominio sull'impresa», inteso come dominio sul processo di produzione dell'evento (Herrschaft über Erfolgsursache) (6).
Come evidenziato dalla dottrina (7) la schema concettuale che è alla base di tale ricostruzione attinge alla matrice della nozione stessa di Garantenstellung coniata dalla dottrina tedesca, da contrapporsi alla Rechtpflichtstheorie, ossia alla teoria basata sulla struttura del rapporto di protezione tra garante e bene giuridico (posizione di controllo e posizione di protezione).
La verifica imposta all'interprete è quella di valutare se e in che termini i predetti paradigmi siano stati traslati all'interno del TUS
Il terreno più idoneo a tale verifica è quello della valutazione delle modalità e dei termini attraverso cui è stato attuato il c.d. “principio di effettività”.
Avuto segnatamente riguardo all'esame della normativa in materia di prevenzione infortuni e sicurezza sui luoghi di lavoro, è evidente che le conseguenze di maggior rilievo che il principio di effettività esplica si manifestano sul piano dell'individuazione della figura del datore di lavoro e degli altri soggetti sui quali grava l'obbligo di garantire la sicurezza (datori di lavoro, dirigenti e preposti), con le conseguenze relative in termini di attribuzione di obblighi e responsabilità.
Soffermandosi su tale profilo, in particolare, è sufficiente evidenziare i risvolti applicativi amplissimi che il principio dell'effettività ha svolto nel settore della normativa prevenzionistica, già prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008 (art. 299), con riferimento ad una delle figure più controverse e discusse, quella del preposto.
Ed infatti, la giurisprudenza di legittimità ha sempre manifestato la tendenza a valorizzare le funzioni in concreto esercitate più che la qualifica formale rivestita ai fini dell'individuazione del soggetto cui attribuire la responsabilità per l'omesso controllo o vigilanza dei lavoratori soggetti alla sua «supervisione».
In alcune delle numerose pronunce in cui si è fatta applicazione del principio dell'effettività, infatti, la Corte ha affermato che «In tema di infortuni sul lavoro, l'esatta individuazione del preposto, più che attraverso la formale qualificazione giuridica, va fatta con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell'ambito dell'impresa» (8), aggiungendo peraltro che «al fine di istituire una posizione di garanzia individuabile nella qualità di preposto non è sufficiente che il lavoratore abbia una qualifica superiore a quella degli altri dipendenti, ma è necessario che gli siano attribuiti, anche di fatto, poteri di sovraordinazione sugli altri dipendenti operanti in un determinato settore. Ne consegue che, nel caso in cui al dipendente è attribuito esclusivamente il compito di trasmettere gli ordini formulati da altri preposti o da un dirigente o dal datore di lavoro, non può egli divenire titolare della posizione di garante della salute e della sicurezza degli altri dipendenti.» (9).
Ben si spiega, quindi, la ragione per la quale la giurisprudenza di legittimità, anche più recente, soffermandosi sulla nozione di preposto sotto la vigenza del D.Lgs. n. 626/1994, avesse affermato in maniera chiara che «con l'art. 90 del D.Lgs. n. 626/1994, così come modificato dal D.Lgs. n. 242/1996 è stato ampliato il precetto prevenzionale diretto al preposto, ma perché possa essere chiamato a risponderne in concreto occorre che utilizzando il criterio guida dell'effettività egli abbia in concreto il potere di intervenire nei compiti precettati, per cui l'area della sua responsabilità viene circoscritta dagli effettivi poteri a lui spettanti, indipendentemente dalle più ampi indicazioni normative. Nel caso di specie il caposquadra va inquadrato nella figura del preposto perché rientra nei suoi compiti dirigere e sorvegliare il lavoro dei componenti la squadra.» (10).
Per quanto, poi, concerne l'individuazione dei parametri sulla cui base deve individuarsi il soggetto responsabile in base al principio dell'effettività, la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di ritenere che «In tema di individuazione dei soggetti responsabili delle infrazioni alle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro avvenuti nell'ambito di enti o di imprese ad organizzazione complessa e differenziata, occorre far riferimento alla ripartizione interna ed istituzionale delle specifiche competenze, con la conseguenza che le disposizioni e le norme antinfortunistiche non debbono essere ritenute violate dal presidente o dai capi degli enti o delle imprese, bensì dai preposti ai diversi rami delle attività. Ai capi, invece, possono essere addebitate per negligenza, imperizia, imprudenza e inottemperanza di norme o di regolamenti solo quelle violazioni a livello direttivo, specificamente contemplate dalle norme, dai regolamenti e dagli statuti che governano i singoli enti e le singole imprese. (nella specie è stata annullata per difetto di motivazione la sentenza che affermava la responsabilità dell'imputato per le deficienze antinfortunistiche riscontrate nell'ospedale per il solo fatto che l'imputato stesso era presidente dell'unità sanitaria locale (USL), da cui l'ospedale dipendeva. (cfr. Mass n. 149173; Mass n. 151606; Mass n. 155628; Mass n. 160126)» (11).
(6) Sul punto e per i relativi approfondimenti si rinvia senz'altro a N. Pisani, Posizioni di garanzia e colpa d'organizzazione nel diritto penale del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2009, p. 123 ss.
(7) Pisani, op. cit.
(8) Cass., sez. IV, 26 ottobre 1990 n. 16409, G., in CED Cassazione 186001.
(9) Cass., sez. IV, 16 ottobre 2002 n. 40939, G., in CED Cassazione 223296.
(10) Cass., sez. IV, 21 aprile 2006, n. 14192, inedita.
(11) Cass., sez. III, 18 gennaio 1984 n. 3182, C., in CED Cassazione 163579.

Si inserisce nel modello ripartitorio ispirato alla ripartizione intersoggettiva “a cascata” del debito prevenzionistico, la posizione del dirigente. Procedendo, infatti, dalla posizione datoriale apicale, il debito viene suddiviso tra gli altri soggetti attivi della prevenzione (i cosiddetti “debitori di sicurezza”) in misura proporzionale al quantum di poteri conferiti; ciò spiega il perché l'imputazione delle singole responsabilità individuali, con riferimento alla figura del dirigente, avvenga iure proprio, ossia a titolo originario, ciò che distingue dunque il dirigente che riveste un ruolo «endoaziendale» - dotato di una serie di prerogative e poteri - dal dirigente «delegato» dal datore di lavoro, cui dette prerogative e poteri sono conferite mediante un atto di delega, classico strumento di traslazione derivata delle funzioni passive.
In tal senso, già prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008, si affermava in giurisprudenza che «l'art. 1, comma 4-bis, del D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626, come modificato dal D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 242, comporta che i collaboratori del datore di lavoro (dirigenti e preposti), al pari di quest'ultimo, sono da considerare, per il fatto stesso di essere inquadrati come dirigenti e preposti e, nell'ambito delle rispettive competenze ed attribuzioni, destinatari iure proprio della osservanza dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega ad hoc» (12).
Come osservato in dottrina (13), la quadripartizione dell'obbligazione prevenzionistica è coerente con la regola dell'effettività, imputandosi gli obblighi di sicurezza a ciascuno dei soggetti coinvolti di una frazione più o meno ampia degli stessi, in linea con l'idea, che traspare dalla nuova disciplina introdotta dal TUS, di attuazione di un impegno diffuso e non soggettivamente confinato degli obblighi di sicurezza, ripartendo la “posizione di doverosità” tra tutti i soggetti assegnatari di una quota dei doveri prevenzionistici, tenuto conto delle loro possibilità di intervento sull'organizzazione del lavoro: in altri termini - come efficacemente sostenuto dalla dottrina -, sul “cosa” e sul “come” si lavora (14).
Valutato il canone dell'effettività alla luce della nuova ripartizione del debito prevenzionistico scaturente dal mutamento prospettico, ben si comprende, ad esempio, il motivo per cui il dirigente ai fini prevenzionistici non è chi formalmente assume tale veste ai sensi dell'art. 2095 c.c., considerato civilisticamente come «prestatore di lavoro subordinato», insieme ai «quadri, impiegati e operai».
Anzi, le nuove formule definitorie contenute all'art. 2 del D.Lgs. n. 81/2008 consentono anche di individuare cinque diverse categorie di dirigenti, in quanto dovrà essere considerato tale:
a) colui che, in base all'art. 2, lett. d) «in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa» (c.d. dirigente funzionale);
b) colui che, in base all'art. 2, lett. b), «secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa» (c.d. datore di lavoro - dirigente con qualifica datoriale);
c) colui che, in base ad un atto di delega conferito a norma dell'art. 16, svolga le funzioni di alter ego del datore di lavoro (c.d. dirigente delegato);
d) colui che, in base all'art. 18, comma 1, organizza e dirige le attività previste dall'art. 3, secondo le attribuzioni e competenze conferitegli (c.d. dirigente iure proprio);
e) infine, colui che, in base al disposto dell'art. 299 «pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti» alla figura di dirigente tipizzata dall'art. 2, lett. d) (c.d. dirigente “di fatto”).
In altri termini, astraendo dalle qualifiche formali rivestite e riferendosi alle competenze e attribuzioni «dirigenziali» in concreto esercitate, il “vero' dirigente non sarà colui al quale la qualifica apicale sia stata riconosciuta senza il conferimento di reali poteri di vertice, né colui che, pur essendo al vertice della piramide societaria, difetti dei poteri necessari ad incidere sull'organizzazione del lavoro.
Analogamente è a dirsi della figura del preposto.
Ed invero, si afferma ricorrentemente che una delle novità di maggior rilievo che caratterizza la figura del preposto successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008 è costituita proprio dalla individuazione della nozione, prima sconosciuta al legislatore, ma frutto dell'opera di fervente elaborazione giurisprudenziale di legittimità.
I preposti sono soggetti che, pur non avendo poteri di gestione, hanno poteri di controllo nei confronti di altri lavoratori, a loro subordinati.
Scopo della vigilanza attiva spettante ai preposti è quello di operare in modo che tutto quanto disposto dal datore di lavoro e dai dirigenti (istruzioni, disposizioni, misure di prevenzione e di protezione, procedure di sicurezza o di gestione delle emergenze, uso della segnaletica, manutenzione in genere di impianti, macchine, attrezzature di lavoro ecc.) abbia concreta ed efficace attuazione.
Già prima delle modifiche normative introdotte dal D.Lgs. n. 81/2008, la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva contribuito a circoscrivere l'ambito di responsabilità del preposto nel caso in cui si verifichi un infortunio sul lavoro (15).
In effetti, il preposto ha il compito di sovrintendere all'espletamento delle attività soggette alla normativa prevenzionale, intese come quelle attività rivolte alla vigilanza sul lavoro dei dipendenti per garantire che esso si svolga nel rispetto delle regole di sicurezza. Ne consegue, quindi, che non spetta al preposto adottare misure di prevenzione, ma fare applicare quelle predisposte da altri, intervenendo con le proprie direttive ad impartire le cautele da osservare.
Già con l'art. 90 del D.Lgs. n. 626/1994 (così come modificato dal D.Lgs. n. 242/1996) era stato ampliato il precetto prevenzionale diretto al preposto, ma perché quest'ultima possa essere chiamato a risponderne in concreto occorre che utilizzando il criterio guida dell'effettività egli abbia in concreto il potere di intervenire nei compiti precettati, per cui l'area della sua responsabilità viene circoscritta dagli effettivi poteri a lui spettanti, indipendentemente dalle più ampie indicazioni normative (16).
Oggi, invece, accanto all'inedita formula definitoria contenuta alla lett. e) dell'art. 2 («persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa»), la fonte normativa degli obblighi sul medesimo gravanti è costituita dall'art. 19 che procede alla loro dettagliata individuazione.
Dalla definizione fornita dal legislatore, sostanzialmente sovrapponibile nelle premesse a quella del dirigente, essendo invero parametrati i compiti di ciascuno dei due soggetti attivi della sicurezza «in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli», colpisce l'accento del legislatore ai poteri gerarchici e funzionali attribuiti al preposto dalla legge, valorizzando - come efficacemente osservato in dottrina (17) - il suo ruolo di supervisore della fase esecutiva dell'attività di lavoro, rispetto alla quale egli esercita un «funzionale potere di iniziativa».
Ed in tale figura si compendiano e sintetizzano le qualifiche più comuni riferibili a tale soggetto: dal caporeparto al capocantiere (18), dal caposquadra al caposettore (19), tutti soggetti che sono caratterizzati dal rapporto di immediata e diretta sovra ordinazione rispetto al personale impegnato nell'attività di lavoro.
L'aderenza compiuta al principio dell'effettività cui si ispira la legislazione prevenzionistica del 2008, peraltro, è confermata dall'estensione della regola dettata dall'art. 299 in tema di esercizio di fatto di poteri direttivi anche alla figura del c.d. “preposto di fatto”, pur nella criticità della formula legislativa utilizzata, ove l'inserimento dell'avverbio «altresì» sembrerebbe, ad una prima lettura, operare una sorta di sfasatura interna tra colui che riveste una delle qualifiche soggettive indicate dall'art. 2 e chi, invece, eserciti i poteri giuridici riferibili a dette qualifiche in via di fatto (20).
(12) V., in termini: Cass., Sez. IV, n. 11351 del 20 aprile 2005 (dep. 31 marzo 2006), S. ed altro, in CED Cassazione 233656; Cass., sez. IV, n. 6277 del 6 dicembre 2007 (dep. 8 febbraio 2008), P.M. in proc. O. e altro, in CED Cassazione 238749, in Dir. prat. lav., 2008, p. 1555 ss., con nota di S. Maretti, Servizio di prevenzione e protezione: funzioni e responsabilità; Cass., Sez. IV, n. 19712 del 3 febbraio 2009, G. e altri, in CED Cassazione 243637.
(13) F. Basenghi, La ripartizione degli obblighi di sicurezza nel nuovo impianto legale, in Dir. rel. ind., 2008, p. 428.
(14) Sul tema, e, in particolare, sull'effetto diffusivo del debito di sicurezza su una pluralità di centri di imputazione di responsabilità, v. M. Lai, Flessibilità e sicurezza del lavoro, Giappichelli, 2006, p. 57.
(15) Cass., sez. IV, 5 aprile 1996, n. 3483, P.G. in proc. P. ed altro, in CED Cassazione 204972: «Preposto è colui che, nel suo settore, prende decisioni e sovrintende al lavoro eseguito da altri, pur potendo, ove occorra, contribuire alla realizzazione dello stesso. è da escludere, pertanto, che sia preposto l'operaio che fa” parte di una squadra di pronto intervento, la quale può essere destinata ad una o ad altra attività lavorativa e i cui componenti devono eseguire personalmente il lavoro, stando alle esclusive direttive altrui.»
(16) In dottrina, peraltro, si ritiene che le funzioni del preposto non siano delegabili in quanto costui «può perdere la titolarità delle funzioni solo con il venir meno della qualità di preposto» (così, C. Brusco, La delega di funzioni alle luce del D.Lgs. n. 81 del 2008 sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, in Giur. merito, 2008, p. 2776).
(17) Basenghi, op. cit.
(18) Sull'inquadramento del capo cantiere nella figura del preposto, v. da ultimo: Cass., sez. IV, n. 39606 del 28 giugno 2007, M. ed altro, in CED Cassazione 237879.
(19) Nel senso che «il caposquadra è un preposto che e tenuto a seguire minuto per minuto l'attività lavorativa allorché questa sia pericolosa. In tal caso e tenuto a controllare la esecuzione del lavoro compiuto da altri e ad avvertire costoro o terzi dell'insorgenza di un improvviso pericolo», v. Cass., sez. VI, n. 4481 del 21 gennaio 1977, N., in CED Cassazione 135561.
(20) Nel senso della coerenza interna tra le due previsioni, è orientato P. Pascucci, Dopo la legge n. 123 del 2007. Prime osservazioni sul titolo I del decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo», Facoltà di Giurisprudenza, Olympus - Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro, Pesaro, 2008, p. 92 ss.

Il nuovo TUS del 2008 individua gli obblighi generali di tutela operando una differenziazione a secondo del soggetto coinvolto: datore di lavoro e dirigente, preposto, lavoratore, medico competente, etc.
Gli obblighi individuati per ciascuna di tali figure, tuttavia, non esauriscono l'ambito «obbligazionario» imposto ai soggetti individuati, dovendosi aggiungere, oltre agli obblighi di carattere «generale» imposti e individuati nel Titolo I del TUS, tutta quella dettagliata serie di obblighi di sicurezza individuati nei Titoli successivi in relazione alle differenze tipologie di rischio lavorativo.
La modalità attraverso cui il legislatore procede all'individuazione è innovativa, soprattutto per la puntuale attenzione dedicata alla disciplina di dettaglio per ciascuna figura soggettiva presa in considerazione.
È, anzitutto, l'art. 18 ad individuare gli obblighi, per quanto qui di interesse, del «dirigente».
Tale disposizione normativa, riprendendo il contenuto dell'art. 1, comma 4-bis, D.Lgs. n. 626/1994, stabilisce che «Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all'articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite» sono tenuti ad assolvere ad una nutrita serie di adempimenti.
Tale disposizione, già dopo la sua introduzione dovuta per effetto delle modifiche introdotte con il D.Lgs. n. 242/1996 (c.d. “correttivo” al TUS del 1994), era stata oggetto di puntuale esegesi da parte della giurisprudenza di legittimità.
Sotto tale profilo, infatti, la Suprema Corte - con riferimento al delicato problema dei rapporti tra delega di funzioni e compiti dei soggetti apicali della prevenzione, aveva avuto modo di precisare che «l'art. 1, comma 4-bis, del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, come modificato dal D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 242, comporta che i collaboratori del datore di lavoro (dirigenti e preposti), al pari di quest'ultimo, sono da considerare, per il fatto stesso di essere inquadrati come dirigenti e preposti e, nell'ambito delle rispettive competenze ed attribuzioni, destinatari iure proprio dell'osservanza dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega ad hoc (21).
Ebbene, il tema della dirigenza merita alcune puntualizzazioni in diritto dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 626/1994 e del D.Lgs. n. 81/2008 che ne prosegue l'opera di forte innovazione.
Il D.P.R. n. 547/1955, all'art. 4 non consentiva infatti riserve sull'essere il dirigente destinatario delle norme antinfortunistiche, disponendo la lett. a) che «i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti che esercitano, dirigono o sovrintendono alle attività indicate all'art. 1, devono nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, attuare le misure di sicurezza previste nel presente decreto». Attuazione che, nel caso di attribuzioni e di competenze con autonomia di spesa, non poteva non comprendere l'obbligo di adeguare alla disposizioni di legge le macchine del settore in cui la dirigenza veniva esercitata; attuazione; invece, che, in mancanza di detta autonomia o in presenza di una relativa autonomia, che non consentisse se non determinati, limitati, interventi, imponeva al dirigente di segnalare al datore di lavoro le inadempienze alle norme antinfortunistiche chiedendone il rispetto o chiedendo le risorse per adempiervi personalmente, salvo, ovviamente, il caso della delega delle funzioni, la quale, facendo del dirigente l'alter ego del datore di lavoro a tutti gli effetti, non avrebbe potuto non prevedere anche un'adeguata autonomia finanziaria.
Il D.Lgs. n. 626/1994 (art. 4) nella formulazione originaria, distingueva tra gli obblighi indirizzati al solo datore di lavoro e obblighi posti congiuntamente a carico di quest'ultimo e dei dirigenti e preposti, disponendo, nel comma 5 - analogamente a quanto previsto dal D.P.R. n. 547/1955, art. 4 - che «il datore di lavoro, il dirigente e il preposto esercitano, dirigono o sovrintendono le attività indicate all'art. 1 nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, adottando le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori», disposizione seguita da un nutrito elenco di ipotesi di intervento.
Ma, il successivo D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 242, ha abolito la distinzione, di cui all'art. 4, tra obblighi indirizzati al solo datore di lavoro ad obblighi posti congiuntamente a carico di quest'ultimo e dei dirigenti e preposti, quasi a voler individuare - come è stato osservato dalla dottrina - in conformità al modello della direttiva comunitaria, nel datore di lavoro l'unico destinatario di tutti i precetti indirizzati al vertice gestionale dell'azienda o dell'ente.
«Infatti - osserva la dottrina in questione nell'enunciazione specifica del contenuto dei precetti da osservare - è stato eliminato ogni riferimento al dirigente, riportando, invece, sotto l'art. 1, comma 4-bis, la disposizione generale, secondo cui il datore di lavoro che esercita le attività soggette alla normativa prevenzionale e, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, i dirigenti e i preposti che dirigono o sovrintendono le stesse attività, sono tenuti al rispetto di tutte le regole dettate dalla disciplina prevenzionale, quasi a voler evidenziare, con questa diversa collocazione della norma, il suo precipuo carattere di criterio di massima, di precetto strumentale, destinato essenzialmente a riconoscere e ad autorizzare la piena derogabilità della stragrande maggioranza degli obblighi prevenzionali, eccezione fatta per quel ristretto nucleo di compiti prioritari espressamente indicati nel medesimo art. 1, comma 4-ter.»
Questa voce della dottrina, preso atto della eliminazione, dall'art. 4, della distinzione contenuta nel comma 5 e del trasferimento di quest'ultima disposizione, nella prima sua parte, nell'art. 1, comma 4-bis, si chiede quale sia il significato di tale variazione in apparenza solo topografica; si chiede, cioè, se tale variazione sia mera questione di tecnica legislativa, senza conseguenze sostanziali, ovvero sia un cambiamento di impostazione con notevoli riflessi sul piano sia teorico che pratico.
Se, in sostanza, l'innovazione stia a significare l'adesione del legislatore del 1996 alla teoria dell'ontologica inscindibilità della posizione di garanzia dalla qualifica datoriale, con la conseguenza di ritenere che, senza una valida delega di funzioni, non possa sorgere nessuna responsabilità né del dirigente né del preposto, perché su di loro non graverebbe iure proprio alcun obbligo prevenzionale o se l'innovazione stia, invece, a significare che «la modifica operata sul punto dal D.Lgs. n. 626/1994 abbia semplicemente ripristinato la vecchia e sperimentata formula contenuta nel D.P.R. n. 547/1955 - art. 4 - e anche nel D.P.R. n. 303/1956, secondo cui i collaboratori del datore di lavoro sono, al pari di quest'ultimo, da considerare, per il fatto stesso di essere inquadrati come dirigenti o preposti e, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, destinatari iure proprio dell'osservanza dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega ad hoc.
Le due tesi meritano entrambe, secondo questa dottrina, la dovuta attenzione. Ma, è evidente che vada operata una scelta che, ad avviso della Suprema Corte, deve necessariamente cadere sulla seconda tesi.
Sembra, invero, doversi affermare, innanzitutto, che è la stessa formulazione della norma negli stessi, pressoché identici, termini usati dal D.P.R. n. 547/1955, art. 4, che consente di ritenere che il legislatore abbia voluto rendere i dirigenti e i preposti destinatari delle norme antinfortunistiche iure proprio, prescindendo dalla eventuale delega. E ciò anche alla luce della storia dell'applicazione delle norme antinfortunistiche, successiva all'entrata in vigore del D.P.R. n. 547/1955, storia che insegna che la ragionevole articolazione del potere di intervento iure proprio e, quindi, l'attribuzione di questo potere ai dirigenti e ai preposti, quotidianamente presenti nel luogo di lavoro e, pertanto, a costante contatto dei lavoratori, non può, di norma, che rendere più meditata, più immediata e, quindi, più incisiva ed efficace la tutela antinfortunistica.
In secondo luogo, è la stessa intestazione della rubrica dell'art. 4 («obblighi del datore di lavoro, del dirigente e del preposto») che può far ritenere - lo sottolinea la medesima dottrina - che per questi due ultimi soggetti sia stata prevista una investitura originaria e non derivata dei doveri di sicurezza, come conferma la circostanza che il nuovo art. 18 D.Lgs. n. 81/2008 (a differenza del previgente art. 4 D.Lgs. n. 626/1994 novellato dal D.Lgs. n. 242/1996 che elencava obblighi riferibili unicamente al datore di lavoro), individua oggi gli «obblighi del datore di lavoro e del dirigente» differenziandoli da quelli del preposto, cui, per la prima volta, viene dedicata un'autonoma trattazione ed attenzione (art. 19).
La differenza con l'abrogato testo del D.Lgs. n. 626/1994 non è, peraltro, decisiva, dovendosi sul punto opportunamente aggiungere che, se l'art. 4 del D.Lgs. n. 626/1994 parlava sempre e soltanto del datore di lavoro, l'art. 89 dello stesso decreto, dedicato alle sanzioni per le contravvenzioni commesse dai datori di lavoro e dai dirigenti, prevedeva, nel comma 2, che anche il dirigente, oltre che il datore di lavoro, potesse essere punito per la violazione dell'art. 4, comma 5, lett. b), d), e), h), l), n), q) e ciò nonostante che il dirigente non fosse nominato nell'art. 4 (era, a tal proposito, sufficiente scorrere il contenuto di queste disposizioni per cogliere che il dirigente fosse già da prima investito di dettagliate responsabilità in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro).
Il nuovo testo dell'art. 18, quindi, riconferma la bontà dell'esegesi giurisprudenziale, individuando in maniera dettagliata le responsabilità del datore di lavoro e quelle del dirigente cui incombono gli obblighi specificati in maniera indifferenziata, come si desume dal riferimento contenuto nel testo al comma 1 della citata disposizione («devono»), fermo restando che tali obblighi scaturiscono per «i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite»: ciò comporta, pertanto, la non necessarietà della delega per i dirigenti che, oltre la qualifica, abbiano le competenze e le responsabilità dirigenziali in base allo specifico conferimento dell'incarico loro attribuito dal datore di lavoro all'atto dell'investitura.
Ciò, in altri termini, significa che il dirigente che sia investito di «attribuzioni e competenze» dirigenziali da parte del datore di lavoro non necessiterà di alcun atto di specifica delega per l'assolvimento degli obblighi indicati dal comma 1 dell'art. 18, obblighi, come detto, indifferentemente incombenti al datore di lavoro e al dirigente che organizza e dirige le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze a quest'ultimo conferite dal datore di lavoro.
Diversa valutazione, invece, deve esprimersi con riferimento all'assolvimento degli obblighi di cui al comma secondo della citata disposizione.
Ed invero, in quest'ultimo caso la norma è chiara nell'individuare quale soggetto obbligato il solo «datore di lavoro» in via esclusiva, ciò che, da un lato, comporta che l'obbligo di fornire al servizio di prevenzione e protezione ed al medico competente informazioni in merito a quanto elencato (natura dei rischi; organizzazione del lavoro, programmazione ed attuazione delle misure preventive e protettive; descrizione degli impianti e dei processi produttivi; dati di cui al comma 1, lett. r), e quelli relativi alle malattie professionali; provvedimenti adottati dagli organi di vigilanza) incombe al datore che, tuttavia, dall'altro, ben potrà provvedere all'attribuzione di tale obbligo di informazione al dirigente attraverso il messianismo tipico della delega di funzioni, trattandosi, come è agevole rendersi conto, di adempimenti perfettamente delegabili ex art. 16 D.Lgs. n. 81/2008, in quanto non esclusi dall'art. 17.
(21) Cass., sez. IV, 20 aprile 2005, n. 11351/06, S. ed altro, in CED Cassazione 233656; conforme: Cass., Sez. IV, 6 dicembre 2007, n. 6277/08, P.M. in proc. O. e altro, in CED Cassazione 238749.

Per quanto attiene più specificamente alle responsabilità datoriali e dei dirigenti, il D.Lgs. n. 106/2009 ha introdotto all'art. 18 un inedito comma 3-bis che così recita:
3-bis. Il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì a vigilare in ordine all'adempimento degli obblighi di cui agli articoli 19, 20, 22, 23, 24 e 25, ferma restando l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti.
Nella Relazione di accompagnamento al c.d. “correttivo”, si giustifica l'inserimento di tale comma, precisando che «L'inserimento, infine, all'art. 18 del “testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro del comma 3-bis è diretto a specificare - per importanti ragioni di chiarezza della normativa - a quali condizioni il datore di lavoro risponda delle violazioni di altri soggetti obbligati rimarcando come egli non possa essere ritenuto responsabile ove la violazione della norma antinfortunistica sia dovuta a fatto addebitabile ad altro e diverso soggetto obbligato e non discenda dalla omessa o insufficiente vigilanza da parte del datore di lavoro. In tal modo si fornisce concretezza allo specifico richiamo, contenuto nei pareri di Camera e Senato, alle ipotesi di limitazione delle responsabilità del datore di lavoro a condizione che le circostanze dalle quali sia discesa la violazione non avrebbero comunque potute essere evitate dal datore di lavoro neppure comportandosi in maniera diligente (art. 5, paragrafo 3, direttiva n. 89/391 CE)».
In realtà, com'è noto, la norma è frutto della mediazione politica sorta all'indomani della presentazione, nel testo del c.d. “correttivo”, di una previsione assai discutibile, costituita dall'art. 10-bis, di cui si riporta di seguito il testo originario:
Art. 15-bis (Obbligo di impedimento)
«1. Nei reati commessi mediante violazione delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all'igiene sul lavoro il non impedire l'evento equivale a cagionarlo alle seguenti condizioni: a) che sia stato violato un obbligo derivante da una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato; b) che il titolare della posizione di garanzia sia in possesso dei poteri giuridici o di fatto idonei ad impedire l'evento; c) che la posizione di garanzia sia tassativamente istituita dalla legge, salvo poter essere, nei limiti da essa determinati, specificata da regolamenti, provvedimenti della pubblica autorità, ordini o atti di autonomia privata; d) che l'evento non sia imputabile ai soggetti di cui agli articoli 56, 57, 58, 59 e 60 del presente decreto legislativo per la violazione delle disposizioni ivi richiamate.
2. Il trasferimento degli obblighi derivanti dalla posizione di garanzia è consentito nei modi e nei limiti previsti dal presente decreto.»
La norma, con un evidente eccesso di delega, introduceva una vera e propria deroga al regime di attribuzione della responsabilità penale per omesso impedimento dell'evento indicata all'art. 40, comma 2, c.p., poiché, in sintesi, prevedeva che nei reati commessi mediante violazione della normativa antinfortunistica, la regola dettata dall'art. 40, comma 2, c.p. fosse applicabile a condizione, tra l'altro, che l'evento non fosse imputabile ai soggetti indicati dalla lett. d) per la violazione delle disposizioni ivi richiamate.
A seguito delle vigorose critiche della dottrina (22), che aveva evidenziato come la norma, così formulata, introducesse un vero e proprio esonero da responsabilità per datore di lavoro e dirigenti che non sarebbero più stati obbligati ad impedire eventi lesivi o mortali nei luoghi di lavoro quando a concausare gli eventi fossero state condotte colpose di altri soggetti, la Commissione incaricata di elaborare il c.d. “correttivo” del 2009 ebbe a riformulare il testo come oggi contemplato dal comma 3-bis.
Come è stato sottolineato dalla migliore dottrina (23) con l'esplicitare la nuova norma l'obbligo datoriale di vigilanza sull'adempimento degli obblighi gravanti sugli altri soggetti, il comma 3-bis, da un lato, esalta l'indefettibile ruolo del datore di lavoro quale primario garante e coordinatore della sicurezza in azienda; dall'altro, non altera il regime delle responsabilità perché ritiene il datore di lavoro esonerato dalle responsabilità a condizione che abbia correttamente vigilato sull'adempimento degli altri soggetti e che non abbia altresì alcuna responsabilità in ordine alla non attuazione degli obblighi da parte degli stessi soggetti, risultando detta responsabilità unicamente addebitabile a questi ultimi.
Altra dottrina (24), dopo aver evidenziato che il comma 3-bis non produce altro risultato che quello di confermare l'assetto degli obblighi impeditivi già vigente nel nostro ordinamento, analizza la disposizione in esame precisando come la norma si limiti a stabilire che l'obbligo di vigilanza del datore di lavoro e del dirigente sull'operato dei terzi incontra due limiti: a) la mancanza di nesso causale; b) la mancanza di colpa.
Quanto al primo, la mancata attuazione degli obblighi dei terzi deve risultare addebitabile unicamente agli stessi, ciò che significa che il datore di lavoro e il dirigente non devono aver offerto, con la propria condotta, alcun contributo causale all'inadempimento dei terzi; quanto alla seconda, non deve essere riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti, ciò che significa che la condotta illecita del terzo non deve essere rimproverabile al datore di lavoro o ai dirigenti per un difetto di vigilanza.
Si tratta, all'evidenza, dei due consueti limiti che incontra il dovere penalmente sanzionato di controllo sul comportamento dei terzi, sicché, secondo tale dottrina, la nuova disposizione nulla aggiunge (o toglie) al sistema d'imputazione oggettiva e soggettiva del fatto illecito del terzo al soggetto-garante, come pure all'imputazione oggettiva e soggettiva dell'evento infortunio o malattia professionale in difetto di concorso o di cooperazione, così come prefigurate dagli artt. 40, cpv., 41, 43, 110 e 113 c.p. (25).
Il tema, peraltro, è assai delicato, in quanto - come evidenziato dalla dottrina da ultimo richiamata - comporta la necessità di contemperare detto obbligo di “supervigilanza” con il principio dell'affidamento, ossia domandarsi fino a che punto il datore di lavoro od il dirigente possono contare sul fatto che altri soggetti interagenti (seppure dia cronicamente e/o in assenza di contestualità spaziale) osserveranno, o abbiano osservato, le regole relative ai doveri di diligenza loro propri.
Sul punto, occorre effettuare alcune osservazioni.
Di regola, principio dell'affidamento e posizione di controllo non sono radicalmente incompatibili tra loro, dovendosi distinguere tra:
a) posizione di garanzia finalizzata a supplire o anche ad integrare l'incapacità se non anche la speciale debolezza o vulnerabilità del soggetto terzo interagente (rapporto datore di lavoro/dirigente/lavoratore);
b) l'obbligo di sorveglianza, il cui adempimento potrebbe al più non agevolare, ma non impedire il reato altrui (Leoncini) (26).
Ciò, in altri termini, significa che non sarebbe configurabile una posizione di garanzia in mancanza di effettivi poteri di impedimento dell'evento (27). In ragione di quanto sopra, chi è titolare di un mero obbligo di sorveglianza non avrebbe anche l'obbligo di impedire il fatto illecito del terzo, che incombe sul solo datore di lavoro, e, quindi, non potrebbe essere chiamato a rispondere ex art. 40, comma 2, e 113 (o, ex art. 110 c.p., in caso di dolo).
Il condizionale è d'obbligo, poiché la giurisprudenza è pervenuta ad esiti applicativi ben più rigoristici, come ad es., in tema di responsabilità del soggetto che riveste la qualifica di RSPP.
Può tuttavia, ad avviso di chi scrive, dubitarsi della estensione dell'obbligo di vigilanza datoriale in ordine all'adempimento degli obblighi da parte di soggetti estranei all'organizzazione dell'impresa. Ed invero, se, da un lato, non sorprende né appare contrario alla filosofia che permea di sé il nuovo TUS, l'aver rafforzato il ruolo datoriale di garante della sicurezza in azienda la previsione di un obbligo ulteriore di vigilanza «in ordine all'adempimento degli obblighi di cui agli artt. 19, 20 e 25», riferibili a soggetti «intranei» all'organizzazione dell'impresa (preposti, lavoratori e medico competente), non altrettanto è a dirsi con riferimento all'estensione dell'obbligo «rafforzato» di vigilanza «in ordine all'adempimento degli obblighi di cui agli artt. 22, 23 e 24», obblighi evidentemente riferibili a soggetti «estranei» all'organizzazione imprenditoriale (progettisti, fabbricanti e fornitori, installatori), rispetto ai quali la posizione di garanzia del datore di lavoro mal si concilia con la possibilità di `dominare” l'evento, con il rischio di attuare - quale portato di questa “supervigilanza” - un pericoloso automatismo posto che sarebbe scontato riscontrare «un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti» che, a norma del comma 3-bis, non esclude la responsabilità penale del datore di lavoro.
Non può quindi non condividersi quanto la migliore dottrina (28) ha affermato sul punto, ovvero che la sola via maestra per coniugare esigenze di tutela e rispetto del principio di legalità sarebbe di definire per legge un sistema fondato su un catalogo “chiuso”, di posizioni di garanzia dal quale inferire chiaramente titolari e contenuti degli obblighi impeditivi, come pure i progetti Grosso e Nordio, avevano tentato, senza successo.
(22) Si ricorda l'appello di 70 autorevoli giuristi, capeggiati dal Prof. Marinucci, con cui si contestava la formulazione della norma in esame, ravvisando almeno quattro profili di incostituzionalità: a) violazione dell'art. 76 Cost.; b) violazione dell'art. 3 Cost.; c) violazione dell'art. 41, comma 2 Cost.; d) violazione dell'art. 117 Cost.
(23) Pascucci, op. cit., p. 599.
(24) G. De Sanctis, Effetti penalistici del “correttivo” (d.lgs. n. 106/2009) al TUS (d.lgs. n. 81/2008), in Resp. civ. prev., 2010, p. 703 ss.
(25) Dissente dall'opinione in commento, invece, S. Cassar, Il regime giuridico della delega di sicurezza: condizioni di legittimità e limiti dell'incarico di funzioni nel nuovo assetto normativo, in Mass. giur. lav., 2010, p. 614 ss., secondo cui, lungi dall'aver voluto attribuire a detta disposizione un funzione incriminatrice, si potrebbe tentare una lettura esegetica al fine di rendere immediatamente e concretamente operativo l'obbligo, in particolare stabilendo che detto obbligo - così come in tema di delega - si intende assolto in caso di adozione ed attuazione del modello di verifica e controllo indicato dallo stesso legislatore nel TUS, ossia quello richiamato dall'art. 30, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008, non essendo ravvisabile alcuna contraddizione significativa per la quale la predisposizione di tale sistema, nei modi e nel senso sopra precisati, non possa avere efficacia esimente della responsabilità datoriale anche nel caso disciplinato dall'art. 18 TUS.
(26) Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, p. 371.
(27) Mezzetti, Diritto penale dell'impresa, di Ambrosetti, Mezzetti, Ronco, Bologna, 2009, p. 90 ss.
(28) De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, in Canestrari, Cornacchia, De Simone, Bologna, 2007, p. 371.


Fonte: IPSOA

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