La legge 4 novembre 2010, n. 183 interviene anche sul rapporto di lavoro a tempo determinato, nella consapevolezza di una urgenza di definizione con maggiore rigore e con migliori certezze delle fattispecie negoziali meritevoli di una valutazione preventiva di capacità di tenuta in ragione delle attese, reciprocamente riconosciute, di entrambe le parti.
In questa prospettiva, dunque, il `Collegato lavoro', interviene nel novero dei contratti su cui si sviluppa il campo di applicazione del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (1) (di recepimento della direttiva comunitaria n. 1999/70/Ce del 28 giugno 1999) per affidare il contratto a termine (2) a tre nuove regolamentazioni con riferimento alla illegittima apposizione del termine e alle conseguenze della cessazione o della trasformazione del rapporto di lavoro:
• la prima riguarda l'introduzione della regola della conversione del rapporto per l'ipotesi di accertata illegittimità della apposizione del termine;
• la seconda la predeterminazione della misura del risarcimento nel massimo di 12 mensilità, riducibili a 6 mensilità in presenza di un accordo sindacale;
• la terza innovazione attiene alla introduzione di un termine di decadenza per la impugnazione dei contratti a termine relativamente a: licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla legittimità del termine e azioni di nullità del termine apposto ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001, sia in corso di esecuzione che cessati.
D'altro canto, nell'affrontare le novità della disciplina normativa approntate dalla legge n. 183/2010, anche alla luce dei primi pronunciamenti giurisprudenziali, appare opportuna una, sia pure sintetica, enucleazione dei temi principali di disamina del contratto a tempo determinato.
(1) Si tenga presente che a norma dell'art. 10 del D.Lgs. n. 368/2001, le disposizioni in esso contenute non trovano applicazione con riguardo a: contratti di somministrazione di lavoro; contratti di apprendistato e tipologie contrattuali a carattere formativo (inserimento, tirocini formativi); rapporti di lavoro con gli operai agricoli a tempo determinato; settori del turismo e dei pubblici esercizi per le assunzioni per l'esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni; contratti con i dirigenti e rapporti instaurati con le aziende di esportazione, importazione e commercio all'ingrosso di prodotti ortofrutticoli. Inoltre sono espressamente disciplinate alcune ipotesi particolari di carattere derogatorio alla disciplina generale dettata dal D.Lgs. n. 368/2001:
- nel trasporto aereo ed i servizi aeroportuali le imprese del settore possono fare ricorso a contratti a termine senza necessità di specificare la causale, per un periodo massimo di sei mesi, compresi fra aprile e ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti nell'anno, nei limiti del 15% dell'organico aziendale addetto ai servizi interessati (servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci), - art. 2, c. 1, D.Lgs. n. 368/2001;
- le concessionarie di servizi postali possono ricorrere a contratti a termine senza obbligo di indicare la causale, per un periodo massimo di sei mesi, compresi tra aprile e ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti nell'anno, purché nei limiti del 15% dell'organico aziendale e previa comunicazione alle organizzazioni sindacali territoriali di categoria - art. 2, c. 1-bis, D.Lgs. n. 368/2001;
- per i dirigenti di azienda è consentita la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato, purché di durata non superiore a cinque anni con possibilità di recesso dopo un triennio, si applicano le disposizioni degli artt. 6 (parità di trattamento con i lavoratori a tempo indeterminato) e 8 (computabilità ai fini dei limiti dimensionali dell'unità produttiva) - art. 10, c. 4, D.Lgs. n. 368/2001;
- al personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale non trovano applicazione le norme di cui agli artt. 4 (proroga del contratto a termine) e 5 (successione di contratti a termine) - art. 11, c. 4, D.Lgs. n. 368/2001.
(2) In dottrina si vedano: M. Tiraboschi, L'apposizione del termine al contratto di lavoro: il nuovo quadro legale, e Id., La nuova disciplina della successione dei contratti a termine: il regime transitorio e il potere derogatorio della contrattazione collettiva, entrambi in M. Tiraboschi (a cura di), La riforma del lavoro pubblico e privato e il nuovo welfare, Giuffré, Milano, 2008, 3 s.; M.C. Cataudella, P. Ferrari, E. Fiata, I. Piccinini, Il contratto di lavoro a termine, in M. Persiani (diretto da), I nuovi contratti di lavoro, Utet giuridica, Milano, 2010, 275 s.; V. De Michele, Le modifiche alla disciplina del contratto a termine, in M. Miscione, D. Garofalo (a cura di), Commentario alla legge n. 133/2008. Lavoro privato, pubblico e previdenza, Ipsoa, Milano, 2009, 400 s.; M. Biagi (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Giuffré, Milano, 2002; M. Magnani, Diritto dei contratti di lavoro, Giuffré, Milano, 2009, 63 s.; V. Speziale, La nuova legge sul lavoro a termine, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2001, 361 s.; A. Vallebona, C. Pisani, Il nuovo lavoro a termine, Cedam, Padova, 2001; L. De Angelis, Il nuovo contratto a termine: considerazioni sul regime sanzionatorio, in Foro it., 2002, V, 36 s.; A. Preteroti, Il contratto di lavoro a tempo determinato, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro privato e pubblico, Ipsoa, Milano, 2009, 249 s. Sul piano interpretativo rileva ancora la circolare del Ministero del lavoro n. 42 del 1° agosto 2002.

Con il D.Lgs. n. 368/2001 il rapporto di lavoro a termine ha abbandonato la sua originaria natura di mera (e residuale) `eccezione' rispetto al rapporto a tempo indeterminato, divenendo meno condizionato, potendo porsi in essere (a norma dell'art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 368/2001), in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (3).
Si tratta di una forte innovazione rispetto alla normativa precedente, passando da una rigida elencazione di ipotesi che consentivano l'apposizione del termine ad una più estesa possibilità di utilizzazione del contratto a termine che, pur non estendendo del tutto detta possibilità, la rende legittima sulla base dell'esistenza di una delle ragioni sopra indicate. Non si tratta pertanto di una totale liberalizzazione senza limiti della facoltà di instaurare rapporti a tempo determinato in quanto tali rapporti sono ammessi unicamente in presenza delle sopra citate “ragioni giustificative”.
Secondo il Ministero del lavoro (circolare n. 42/2002) appare superato l'orientamento volto a riconoscere la legittimità dell'apposizione del termine soltanto in presenza di un'attività meramente temporanea, così come, del resto, sono superati i caratteri della «temporaneità» ed «imprevedibilità» proprie delle precedenti ragioni giustificative.
Una corretta interpretazione dell'art. 1 impone di rigettare letture riduttive della lettera della legge e in particolare gli orientamenti volti a riconoscere la legittimità dell'apposizione del termine solo in presenza di una occasione meramente temporanea di lavoro. La temporaneità della prestazione è, semplicemente, la dimensione in cui deve essere misurata la ragionevolezza delle esigenze tecniche, organizzative, produttive o sostitutive poste a fondamento della stipulazione del contratto a tempo determinato, che dovrà essere considerato lecito in tutte le circostanze individuate dal datore di lavoro sulla base dei criteri della normalità tecnico-organizzativa ovvero per ipotesi sostitutive, nelle quali non si può esigere una assunzione a tempo indeterminato o l'assunzione a termine non assuma una finalità chiaramente fraudolenta sulla base dei criteri di ragionevolezza desumibili dalla combinazione fra durata del rapporto e attività lavorativa dedotta in contratto.
Le ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo che vanno specificate in via preventiva dal datore di lavoro nel contratto, devono corrispondere ai requisiti della oggettività e pertanto devono essere verificabili al fine di non dar luogo ad eventuali comportamenti fraudolenti o elusivi. La ragione addotta, purché oggettivamente rilevabile, è rimessa all'apprezzamento del datore di lavoro e deve sussistere al momento della stipulazione del contratto, per cui la sopravvenuta stabilità dell'esigenza non può incidere sulla legittimità del contratto.
Su questo panorama legislativo si sono imposte due novelle legislative (una in vigore dal 1º gennaio 2008, l'altra dal 25 giugno dello stesso anno) che, con intervento normativo di segno diametralmente opposto, hanno per un verso ristretto (o tentato di restringere) il ricorso al lavoro a tempo determinato, e per altro verso cercato di `normalizzare' l'uso regolare e non fraudolento di questa tipologia contrattuale, rendendo modulabile la flessibilità in termini di flexicurity.
In ordine decisamente cronologico si impone, dunque, l'art. 1, comma 39, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, in forza del quale all'art. 1, del D.Lgs. n. 368/2001 è stato inserito un nuovo comma numerato 01 secondo cui: “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato” (4).
Non sfugge il valore di tale previsione normativa, la quale mirava ad individuare il rapporto di lavoro `normale' in quello a tempo indeterminato, finendo per promuovere una lettura restrittiva (ma anacronistica) del comma 1 dello stesso art. 1 da ritenersi (quasi come in un improvvido ritorno alla legge n. 230/1962) come `eccezione' (motivata) alla regola generale, mera deroga alla presunzione di indeterminatezza della fattispecie contrattuale standard del lavoro dipendente.
L'apposizione del termine, che deve risultare a pena di nullità da atto redatto in forma scritta (5), deve avvenire non più soltanto con specifica illustrazione delle causali che giustificano la stipula del contratto a tempo determinato estrinsecando una delle motivazioni generiche rappresentate dal cd. `causalone' (norma aperta), ma anche alla luce di una necessaria intrinseca causalità di tipo temporaneo.
La redazione del contratto di lavoro a tempo determinato, dunque, rischiava di diventare una vera e propria `trappola' per l'operatore, giacché se prima dell'intervento riformatore della legge n. 247/2007 l'esperienza giurisprudenziale si era limitata a dimostrare che non si poteva far ricorso con `leggerezza' ai rapporti a termine, restringendo fortemente gli spazi applicativi del `causalone', fino al 24 giugno 2008 vi era anche lo spettro della dimostrazione necessaria di una `temporaneità' e della `eccezionalità' delle esigenze aziendali di ricorso a questa tipologia contrattuale flessibile.
Con l'articolo 21 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, il quadro normativo dell'articolo 1 del D.Lgs. n. 368/2001 muta di nuovo, con una chiarificazione (quasi di tipo interpretativo autentico) della portata della disposizione.
L'art. 21, comma 1, del decreto-legge n. 112/2008, sviluppando la portata precettiva della norma secondo i principi già ricavabili dall'ordinamento, specifica il riferimento delle esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che consentono l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato, anche quando “riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”.
Dalla assoluta preferenza accordata dalla legge n. 247/2007 al contratto di lavoro a tempo indeterminato, da cui discendeva un radicale sfavore per il ricorso a qualsivoglia forma di contratto a termine (6), dal 25 giugno 2008 per effetto del decreto-legge n. 112/2008 l'impresa viene rassicurata circa la legittimità piena di una assunzione a tempo determinato anche per le ordinarie attività, purché a fronte di almeno una delle causali previste, concretamente ed esplicitamente individuata all'interno della singola realtà aziendale, senza pretesi vincoli di eccezionalità.
Quanto alla stipula originaria del contratto a termine, dunque, le previsioni legislative seguitano a rendere piuttosto ampio il ricorso causale a questa tipologia contrattuale, pur obbligando il datore di lavoro ad individuare espressamente le ragioni che gli consentono di ricorrere ad un'assunzione con apposizione del termine per motivazioni che devono essere esposte con chiarezza e nel dettaglio.
Premesso che la norma che dispone circa la possibilità di apporre un termine in presenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo o sostitutivo è «una clausola generale e aperta la cui funzione è quella di consentire l'utilizzazione flessibile dell'istituto in raccordo con le specifiche e variabili esigenze concrete di ciascun datore di lavoro» (circolare n. 42/2002) e pertanto si abbandona il criterio della flessibilità contrattata per rafforzare le pattuizioni individuali. L'onere di provare l'esistenza delle suddette ragioni giustificative, pur in assenza di specifiche disposizioni legislative, ricade sul datore di lavoro. La norma rende piuttosto ampio il ricorso causale al contratto a termine, pur obbligando il datore di lavoro ad individuare espressamente le ragioni che gli consentono di ricorrere ad un'assunzione con apposizione del termine per motivazioni che devono essere esposte con chiarezza e nel dettaglio.
Per la Suprema Corte l'indicazione di più causali giustificatrici della apposizione del termine ad un contratto di non è per sé sola considerata causa di illegittimità dello stesso per contraddittorietà o incertezza della causale, ferma restando la verifica circa l'effettività e la coerenza delle plurime ragioni enunciate (Cass. 17 giugno 2008, n. 16396).
I motivi che hanno indotto il datore di lavoro a scegliere il contratto a termine, che devono risultare sussistenti al momento della stipulazione del contratto, devono essere enunciati esplicitamente senza generici riferimenti alle previsioni normative (Trib. Treviso 15 aprile 2008; Trib. Roma 2 aprile 2007).
Inoltre i motivi enunciati in modo esplicito devono risultare di carattere oggettivo, essendone richiesta una puntuale verifica a fini antifraudolenti e antielusivi (Trib. Venezia 6 febbraio 2007; Trib. Milano 11 maggio 2006).
D'altro canto si tenga presente che la legge n. 183/2010 intervenendo sulla certificazione dei contratti, al comma 2 dell'art. 30 ha sancito espressamente che «nella qualificazione del contratto di lavoro e nell'interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro» con la sola eccezione delle fattispecie in cui si verifichino: l'erronea qualificazione del contratto, vizi del consenso oppure la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione.
Da qui l'utilità di sottoporre al certifier la valutazione e la certazione della clausola contenente l'apposizione del termine, al fine di assicurare alle parti del contratto a tempo determinato una garanzia di certezza rispetto alle ragioni della previsione del termine e alla legittimità della clausola giustificativa.


(3) D'altro canto va rammentato che a norma dell'art. 3 del D.Lgs. n. 368/2001 vi sono delle ipotesi in cui l'apposizione del termine è vietata e quindi non ammessa: per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli artt. 4 e 24 della legge n. 223/1991 che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato, salva diversa disposizione degli accordi sindacali (tale divieto non opera se il contratto a termine è stipulato per sostituire lavoratori assenti o in mobilità o ha una durata iniziale non superiore a 3 mesi); presso unità produttive che hanno disposto la sospensione dei rapporti o la riduzione dell'orario di lavoro, con diritto al trattamento di integrazione salariale, di lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine; per i datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell'art. 17 del D.Lgs. n. 81/2008.
(4) Appare evidente il richiamo al Preambolo dell'Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, siglato dalle parti sociali europee - Unice, Ceep, Ces - recepito nella Direttiva n. 1999/70/Ce, secondo cui: «Le parti firmatarie dell'accordo riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori».
(5) Ad eccezione dei rapporti puramente occasionali, di durata non superiore a 12 giorni.
(6) Nel senso indicato nel testo anche il Ministero del lavoro nella sua circolare 2 maggio 2008, n. 13. Non così, invece, secondo l'interpretazione offerta dalla circolare Confindustria del 28 gennaio 2008, n. 19005, per la quale il comma 01 deve essere «più semplicemente considerato come la trasposizione, nel nostro ordinamento, del principio comunitario secondo il quale il rapporto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la “forma comune” dei rapporti di lavoro».

Fra le ragioni che giustificano l'apposizione del termine sono elencate quelle «sostitutive». L'ampiezza della formula utilizzata legittima l'apposizione di un termine indipendentemente dal fatto che il personale da sostituire si sia assentato per ragioni imprevedibili e non programmate e che il sostituto abbia un diritto legale e non convenzionale, alla conservazione del posto di lavoro. Il contratto a termine stipulato per questa motivazione non è soggetto ai limiti quantitativi eventualmente introdotti dalla autonomia collettiva. Nell'assunzione per ragioni sostitutive, l'apposizione del termine può risultare anche indirettamente, con mero rinvio al momento del rientro del lavoratore da sostituire. In forza delle genericità della norma è pure possibile l'assunzione a termine in sostituzione di un lavoratore assente a seguito di una iniziativa del datore di lavoro (inviato ad un corso di formazione o distaccato presso altro datore di lavoro). Del tutto pacifico il cosiddetto “scorrimento”, per cui il sostituto non deve occupare necessariamente il posto dell'assente, ma può sostituire un altro dipendente che va al posto del lavoratore da sostituire lasciando libero il proprio posto di lavoro, purché esista una coerenza nella catena delle sostituzioni.

L'originaria formulazione del D.Lgs. n. 368/2001 non prevedeva limiti temporali massimi alla durata del contratto, salvo nei casi di proroga e in alcune particolari fattispecie, come ad esempio, per i lavori a giornata nel settore del turismo e dei pubblici servizi (3 giorni - art. 10, comma 3, D.Lgs. n. 368/2001); per il lavoro occasionale (12 giorni non prorogabili in coerenza con la condizione di occasionalità - art. 1, comma 4, D.Lgs. n. 368/2001); per le assunzioni nel settore aereoportuale (4 e 6 mesi - art. 2, D.Lgs. n. 368/2001); per i lavoratori anziani in possesso dei requisiti di pensionamento (2 anni, ripetibili - art. 10, comma 6, D.Lgs. n. 368/2001); per i contratti dei dirigenti (5 anni - art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 368/2001). A decorrere dal 1º gennaio 2008 nell'ipotesi di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, la durata complessiva del contratto non può superare i 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi (art. 5, comma 4bis, D.Lgs. n. 368/2001) introdotto dall'art. 1, comma 40, della legge n. 247/2007).

In ogni caso l'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale devono essere specificate le ragioni che giustificano l'apposizione del termine viste in precedenza. Come detto non è sufficiente un accenno generico come «ragioni tecniche» o «ragioni sostitutive» o altre dizioni generiche consimili. Non è ammissibile una mera parafrasi delle ragioni di cui all'art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001, essendo necessaria un'indicazione dettagliata delle concrete esigenze del datore di lavoro, pur con riferimento alla ordinaria attività aziendale. La pattuizione del termine e la stesura del relativo atto scritto devono essere contestuali o anteriori all'inizio della prestazione lavorativa, ma la copia dell'atto deve essere consegnata al lavoratore entro 5 giorni lavorativi dall'inizio della prestazione. La scrittura non è richiesta se la durata del rapporto, puramente occasionale, non supera a 12 giorni.

Il decreto legislativo, all'art. 3 individua alcune situazioni nelle quali esiste comunque il divieto di apposizione del termine. I casi previsti sono i seguenti:
a) sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
b) salvo diverse disposizioni degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che abbiano interessato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato, salvo che tale contratto sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti, ovvero riguardi lavoratori in mobilità, ovvero abbia una durata non superiore a tre mesi;
c) presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione del rapporto o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine;
d) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008 (prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro).
Per la circolare ministeriale n. 42/2002 il divieto è tassativo nei casi di cui alle lettere a), c) e d), ma derogabile per quanto previsto nella lettera b) che fa divieto di assumere lavoratori con contratto a termine, ma con due eccezioni: la prima, di carattere generale si riferisce all'eventuale diversa disposizione di contratti collettivi, mentre la seconda consente comunque di assumere lavoratori con contratto di lavoro a termine ove lo stesso sia volto a sostituire lavoratori assenti, sia concluso per l'assunzione di lavoratori in mobilità (ed abbia una durata non superiore a 12 mesi) ovvero abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi, comunque prorogabile nel rispetto delle forme e nei limiti stabiliti dall'art. 11.

Sotto altro profilo, rilevano le innovazioni apportate dai commi 40 e 41 dell'art. 1 della legge n. 247/2007, raffrontate con le previsioni di cui all'art. 21, commi 2 e 3, del decreto-legge n. 112/2008, con riferimento al regime di reiterazione e di successione di più contratti a termine e alle clausole di contingentamento apposte dalla contrattazione collettiva.
Pur non intervenendo direttamente sul regime delle proroghe dettato dagli articoli 4 (7) e 5, commi 1-4 (8), del D.Lgs. n. 368/2001, la legge n. 247/2007 ha fortemente inciso il regime della reiterazione dei contratti a termine e del prolungamento temporaneo degli stessi.
L'art. 1, comma 40, lett. b), della legge n. 247/2007, infatti, ha inserito il comma 4-bis nel corpo dell'art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 prevedendo che il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato se, a seguito di una successione di contratti a termine, per lo svolgimento di mansioni equivalenti (requisito oggettivo: identità o equivalenza delle mansioni), fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore (requisito soggettivo: identità delle parti del contratto) si sono superati complessivamente i 36 mesi (9), comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro(requisito temporale: superamento dei trentasei mesi complessivi) (10).
La legge n. 247/2007, dunque, ha introdotto nel D.Lgs. n. 368/2001 un limite generale, tassativo, di durata massima dei contratti a tempo determinato posti in essere fra le stesse parti, non oltre 36 mesi, a far data dal 1º aprile 2009, per quanto la limitazione trovi nel requisito oggettivo un importante punto di riflessione, giacché solo le mansioni equivalenti consentono la sommatoria dei periodi lavorati a termine (11).
La limitazione, peraltro, soffre di quattro distinte deroghe, previste esplicitamente dalla stessa legge n. 247/2007:
a) deroga soggettiva per due categorie di lavoratori: i dirigenti (12) e i lavoratori in somministrazione di lavoro (13);
b) deroga aziendale attiene ai datori di lavoro che svolgono attività stagionali come definite dal D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525 (14);
c) deroga sindacale secondo le previsioni dell'art. 5, comma 4-ter, ultima parte, del D.Lgs. n. 368/2001, per cui il limite dei 36 mesi non opera nei riguardi delle attività stagionali appositamente individuate da avvisi comuni e contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative (15);
d) deroga procedurale (detta anche deroga “assistita”) dettata per la generalità dei lavoratori dall'art. 5, comma 4-bis, a norma del quale un “ulteriore successivo contratto a termine” fra gli stessi soggetti può essere stipulato “per una sola volta”, purché la stipula del contratto avvenga presso la Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente e con l'assistenza di un rappresentante sindacale (16).
La deroga assistita sembrerebbe essere stata inserita per mitigare la restrizione fortemente limitativa posta dalla legge n. 247/2007 ai contratti a termine, ma la stessa soffre di significativi elementi di criticità:
• la norma fa riferimento ad un “ulteriore successivo contratto”, si tratta quindi di un nuovo contratto a termine e non della proroga dell'ultimo stipulato fra le parti, posto in essere dopo il superamento del triennio insuperabile, a pena della trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, dalla scadenza del trentaseiesimo mese (17);
• la norma prevede una assoluta indisponibilità della durata del nuovo contratto a termine, giacché secondo le previsioni dell'art. 5, comma 4-bis, del D.Lgs. n. 368/2001, spetta alle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale stabilire con appositi avvisi comuni la durata dell'ulteriore contratto, si badi, non già quella `massima', ma la durata tout court.
Sul secondo dei due fattori di criticità, peraltro, è tempestivamente intervenuto l'Avviso comune del 10 aprile 2008, sottoscritto da Confindustria con Cgil, Cisl e Uil, secondo cui “la durata del contratto a termine che può essere stipulato in deroga (...) non può essere superiore ad otto mesi, salve maggiori durate eventualmente disposte dai contratti collettivi nazionali o da avvisi comuni stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, firmatarie dei contratti collettivi nazionali di lavoro”; ne deriva, dunque, che l'ulteriore contratto a termine potrà durare al massimo altri 8 mesi, salvo che il Ccnl di settore applicato dall'azienda preveda una durata più ampia (18).
Su questo quadro, d'altro canto, è intervenuto il decreto-legge n. 112/2008, il cui articolo 21, comma 2, consente alla contrattazione collettiva - nazionale, territoriale o anche più direttamente aziendale - di derogare ai vincoli introdotti dalla legge n. 247/2007, proprio con riferimento al limite massimo dei trentasei mesi per la successione di contratti a tempo determinato col medesimo lavoratore per mansioni equivalenti. Ne deriva, dunque, che un accordo collettivo aziendale può dirimere la questione relativa alla tassatività del termine massimo di 36 mesi, secondo le specifiche esigenze organizzative, strutturali o produttive dell'impresa considerata.


(7) Con il consenso del lavoratore il contratto inizialmente stipulato può essere prorogato se la durata iniziale è inferiore a tre anni, per una durata complessiva non superiore a tre anni compresa la proroga, che può essere anche più lunga del contratto originario, per una sola volta, per ragioni obiettive e riferite alla stessa attività lavorativa (l'onere di provare l'esistenza dei motivi giustificativi della proroga grava sul datore di lavoro, Cass. 23 novembre 2006, n. 24886). Oltre al caso della proroga il D.Lgs. n. 368/2001 prevede altre ipotesi di fissazione di limiti massimi di durata per il singolo contratto a termine: 3 giorni per il lavoro a giornata (art. 10, c. 3); 12 giorni per il lavoro occasionale (art. 1, c. 4); 3 mesi prorogabili in caso di deroga al divieto di assunzione temporanea (art. 3, lett. b); 12 mesi nei casi di deroga al divieto per assunzioni di lavoratori in mobilità (art. 3, lett. b); 5 anni per i contratti dei dirigenti (art. 10, c. 4).
(8) Il datore di lavoro può prorogare il contratto a termine con lo stesso lavoratore per un massimo di 20 o 30 giorni a seconda che il termine sia inferiore o superiore a sei mesi, scaduti i quali il contratto si considera a tempo indeterminato (comma 2) a fronte di una specifica maggiorazione retributiva, ovvero anche rinnovarlo decorso un intervallo minimo prestabilito, di 10 o 20 giorni a seconda che il contratto abbia durata inferiore o superiore a sei mesi, limiti temporali che, se superati, portano alla trasformazione ope legis del secondo contratto a tempo indeterminato (comma 3), fermo restando, altresì, che in caso di due assunzioni «successive» a termine, senza soluzione di continuità, il rapporto di lavoro è ritenuto dal suo insorgere a tempo indeterminato (comma 4).
(9) Sul computo del limite è intervenuta la circolare Confindustria del 28 gennaio 2008, n. 19005 argomentando intorno alla possibilità di non computare, ai fini del superamento del limite dei 36 mesi l'eventuale proroga di 20 giorni.
(10) Va segnalato che per l'entrata in vigore del limite tassativo dei 36 mesi è stato previsto un regime transitorio appositamente introdotto dall'art. 1, comma 43, della legge n. 247/2007. Cfr. circolare n. 13 del 2 maggio 2008 del Ministero del lavoro. La disposizione introduce un regime di graduale efficacia del nuovo limite temporale, spostando in avanti, a far data dal 1° aprile 2009, ogni sommatoria dei periodi di lavoro effettuati.
(11) In mancanza di indicazioni precise da parte del legislatore occorre richiamare la nozione di equivalenza delle mansioni così come derivante dall'art. 2103 cod. civ., per cui non si deve tenere in considerazione soltanto la mera appartenenza delle mansioni vecchie e nuove ad uno stesso livello di inquadramento contrattuale, vale a dire la cumulabilità delle attività svolte all'interno dell'organizzazione aziendale ovvero il trattamento retributivo e normativo. Accanto a tale equivalenza di tipo oggettivo, infatti, rileva una equivalenza di carattere soggettivo, in base alla quale le mansioni successivamente svolte richiedono al lavoratore di mettere a frutto e di ulteriormente perfezionare il medesimo bagaglio esperienziale - composto di conoscenze, di capacità e di abilità personali - acquisito in precedenza durante il rapporto di lavoro a termine già concluso o prorogato (cfr. Cass. Sez. Un. 7 agosto 1998, n. 7755 e 24 novembre 2006, n. 25033, in Danno e resp., 2007, 6, 665, secondo cui: «l'equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni considerate nella loro oggettività, ma come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l'arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore, acquisito nella pregressa fase del rapporto»).
(12) L'art. 1, comma 41, lett. c), della legge n. 247/2007, modificando l'art. 10, comma 4, del D.Lgs. n. 368/2001, stabilisce che il nuovo limite generale non opera per i rapporti di lavoro dirigenziali i quali trovano ancora nel quinquennio il termine massimo di durata.
(13) L'art. 22, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003, come modificato dall'art. 1, comma 42, della legge n. 247/2007, prevede che in caso di somministrazione di lavoro a tempo determinato il rapporto di lavoro a termine fra agenzia per il lavoro e lavoratore non soggiace ai limiti di cui all'art. 5, commi 3 e seguenti, del D.Lgs. n. 368/2001.
(14) Per le attività stagionali l'art. 5, comma 4-ter, del D.Lgs. n. 368/2001, introdotto dall'art. 1, comma 40, della legge n. 247/2007, prevede, espressamente, che il limite dei 36 mesi non opera.
(15) A ciò, ad esempio, ha proceduto la contrattazione collettiva nazionale del settore alimentare, con accordo del 17 marzo 2008, mediante il quale ha argomentato intorno al concetto di «stagionalità di consumo», ovvero di «stagionalità in senso lato», al fine di ricomprendere all'interno delle attività per le quali non trova applicazione il comma 4-bis anche «attività connesse ad esigenze ben definite dell'organizzazione tecnico-produttiva ed a caratteristiche del tutto peculiari del settore merceologico dell'azienda» (ex art. 19 Ccnl Industria Alimentare), nonché a quelle attività produttive che sono «concentrate in periodi dell'anno e finalizzate a rispondere ad una intensificazione della domanda per ragioni collegate ad esigenze cicliche e alle variazioni climatiche o perché obiettivamente connesse con le tradizionali e consolidate ricorrenze e festività, e per iniziative promo pubblicitarie per un periodo di tempo limitato». A seguire il 12 giugno 2008, Federalberghi, Fipe, Fiavet, Faita, Federreti e Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs Uil hanno sottoscritto un avviso comune per il settore turismo detta una disciplina innovativa in relazione alle assunzioni stagionali effettuate in seno alle aziende attive durante tutto il corso dell'anno; infatti, l'avviso comune stabilendo che il limite non trova applicazione nei confronti dei contratti di lavoro riconducibili alla stagionalità in senso ampio, come i contratti a termine stipulati ai sensi dell'art. 78 del Ccnl Turismo 19 luglio 2003 (intensificazioni dell'attività lavorativa in determinati periodi dell'anno, quali: periodi connessi a festività, religiose e civili, nazionali ed estere; periodi connessi allo svolgimento di manifestazioni; periodi interessati da iniziative promozionali e/o commerciali; periodi di intensificazione stagionale e/o ciclica dell'attività in seno ad aziende ad apertura annuale).
(16) Appartenente ad una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, alla quale il lavoratore risulti iscritto o abbia conferito mandato.
(17) Se così è - e non sembrano esservi appigli per argomentare in maniera differente - ne deriva che non si possono agevolmente comprendere le ragioni per le quali il lavoratore che avrebbe diritto ad azionare la propria pretesa ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (avendo superato il limite massimo appunto), dovrebbe aderire alla richiesta datoriale di recarsi presso la Direzione provinciale del lavoro per sottoscrivere un nuovo contratto a termine, seppure assistito dal proprio sindacato. Né si comprende quale utilità effettiva potrà ottenere e ricavare lo stesso datore di lavoro dal passaggio burocratico presso l'ufficio periferico del Ministero del lavoro posto che, in mancanza di specifica previsione normativa, il diritto all'azione giudiziale per il riconoscimento della conversione del rapporto in violazione del limite triennale permane in capo al lavoratore anche dopo l'instaurazione del nuovo contratto «assistito».
(18) Così ad esempio nell'Accordo per il settore alimentare del 17 marzo 2008, secondo cui «la durata massima dell'ulteriore successivo contratto a termine (cd. deroga “assistita”) - da stipularsi in deroga al limite temporale massimo dei 36 mesi (...) - sia pari ad un periodo non superiore a 12 mesi».

Sotto altro aspetto, il legislatore riconosce ai contratti collettivi la facoltà di prevedere limiti quantitativi di utilizzazione del contratto a tempo determinato (art. 10, comma 7, D.Lgs. n. 368/2001). Per effetto dell'art. 1, comma 41, della legge n. 247/2007 si è notevolmente ristretta l'area dei contratti al di fuori dei limiti posti dalle clausole di contingentamento, in quanto dal 1º gennaio 2008 sono esclusi soltanto i contratti stipulati (19):
• nella fase di avvio di nuove attività per periodi definiti dai contratti collettivi, anche in ragione delle specificità territoriali o merceologiche (start up);
• per ragioni di carattere sostituivo o di stagionalità;
• con lavoratori di età superiore ai 55 anni;
• per specifici spettacoli o programmi radiofonici e televisivi.


(19) Scompaiono, invece, gli esoneri dai limiti fissati dalla contrattazione collettiva relativamente ai contratti stipulati: per motivi di intensificazione dell'attività lavorativa in alcuni periodi dell'anno; a conclusione di un periodo di stage o di tirocinio, per facilitare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro; per l'esecuzione di un'opera o di un servizio avente carattere occasionale o straordinario, definiti e predeterminati nel tempo.

L'art. 6 del decreto legislativo è dedicato all'attuazione del principio di non discriminazione rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato in armonia a quanto risulta dalla direttiva comunitaria. La norma dispone che al prestatore di lavoro a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, e in proporzione al periodo lavorato, salvo che non sia oggettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine.
Incorre in una sanzione pecuniaria amministrativa (da euro 25 a euro 154, ma da euro 154 a euro 1032 se si tratta di più di 5 lavoratori) il datore di lavoro che viola il principio di non discriminazione.

Da ultimo, anche con riguardo al diritto di precedenza nella riassunzione, riconosciuto ai lavoratori assunti a tempo determinato anche per attività stagionali, ha fortemente inciso la legge n. 247/2007, introducendo nell'art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 i commi 4-quater (20) e 4-quinquies (21) che disciplinano il diritto di precedenza secondo i limiti sanciti dal successivo comma 4-sexies, secondo cui il diritto di precedenza all'assunzione può essere esercitato dal lavoratore se provvede a manifestare espressamente tale volontà al datore di lavoro entro un termine ragionevole dalla data di cessazione del rapporto, fissato legalmente, rispettivamente, entro 6 mesi, se trattasi di lavoratore con anzianità aziendale di almeno 6 mesi, ed entro 3 mesi, se trattasi di lavoratore stagionale; il diritto di precedenza, peraltro, si estingue, in ogni caso, entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro a termine.
In ragione delle criticità interpretative (22) connesse all'operatività in concreto del diritto di precedenza secondo la novella della legge n. 247/2007, l'art. 21, comma 3, del decreto-legge n. 112/2008 ha previsto la facoltà per la contrattazione collettiva, anche aziendale, di derogare al diritto di precedenza di cui all'art. 5, comma 4-quater.


(20) Che attribuisce al lavoratore già stato titolare di uno o più contratti a tempo determinato presso la stessa azienda, prestando complessivamente una attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato che vengono effettuate dal datore di lavoro nei successivi dodici mesi limitatamente alle mansioni svolte (in termini di equivalenza) dal lavoratore medesimo nei rapporti a termine.
(21) Il quale prevede che anche i lavoratori assunti a termine per svolgere attività di carattere stagionale hanno diritto di precedenza, riguardo alle nuove assunzioni a tempo determinato che il datore di lavoro procederà ad effettuare per le stesse attività.
(22) La genericità delle previsioni contenute nell'art. 5, commi 4-quater e 4-quinquies finisce per dire troppo o troppo poco: da un lato, non vi è alcuna delimitazione territoriale per l'esercizio del diritto, e se ragionevolmente parrebbe sensato circoscriverlo alla unità produttiva in cui il lavoratore è stato adibito, la norma lascia aperto un varco gigantesco per riferimenti totalmente differenti (l'intera azienda, piuttosto che le unità produttive situate nello stesso territorio comunale); d'altro lato, mancano criteri orientativi per la scelta del dipendente con diritto di precedenza da assumere laddove i pretendenti siano in soprannumero rispetto alle assunzioni programmate o necessarie, anche qui l'imbarazzante silenzio della legge permette di fare rinvio soltanto ai principi generali di buona fede contrattuale, di ragionevolezza e di non discriminazione.

Per la violazione dell'art. 1 la nullità della clausola di apposizione del termine, in forza del combinato disposto dei commi 01 e 1 dell'art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001, conduce al richiamo e all'applicazione della normativa civilistica, secondo la quale “la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative” (art. 1419, comma 2, cod. civ.), con ciò rideterminando la qualificazione negoziale del rapporto “non standard” nella forma ordinaria di regolazione dei rapporti di lavoro subordinato, con conservazione, pertanto, del contratto di lavoro nella sua species generalizzante, quella a tempo indeterminato (Cass. 21 maggio 2008, n. 12985). A questa soluzione perviene ora direttamente il legislatore che con l'art. 32 della legge n. 183/2010 sancisce espressamente la regola della conversione del rapporto di lavoro nel caso in cui si accerti la illegittimità della apposizione del termine.
Analogamente per quanto attiene la violazione dei limiti nei quali sono disciplinate, in via eccezionale e derogatoria, le assunzioni a termine nei settori del trasporto aereo, dei servizi aeroportuali e delle poste (art. 2).
Sempre alla conversione del lavoro a termine in contratto a tempo indeterminato conduce la violazione delle disposizioni relative alla proroga del contratto (art. 4).
La scadenza del termine fissato determina la cessazione del rapporto di lavoro senza necessità di preavviso (salva proroga o prosecuzione di fatto), mentre un recesso ante tempus può avvenire solo per giusta causa e non già per giustificato motivo (Cass. 10 febbraio 2009, n. 3276).
La prosecuzione di fatto oltre i limiti massimi stabiliti dalla legge comporta la conversione in contratto a tempo indeterminato dalla data del superamento di detti limiti.
La riassunzione del lavoratore occupato a termine con altro contratto a tempo determinato prima del decorso del termine minimo fissato dall'art. 5, comma 3, fa sì che il secondo contratto si consideri ope legis a tempo indeterminato. L'intero rapporto si trasforma a tempo indeterminato, sin dall'instaurazione sulla base del primo contratto a termine, quando il secondo viene stipulato in frode alla legge (art. 5, comma 4).
Con riferimento alla violazione dell'art. 5, comma 4bis, su un piano sanzionatorio, si ha una conversione del nuovo contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato, sia nel caso in cui le parti lo abbiano stipulato senza il rispetto della prescritta procedura, sia in ipotesi di superamento del termine stabilito nel contratto stesso, così come definito dagli avvisi comuni. Si comprende agevolmente, dunque, come il sistema sanzionatorio che governa il lavoro a tempo determinato si concentri sulla puntuale verifica del rispetto dei limiti legali posti all'overflow di ricorso al termine, sia per quanto attiene alla stipulazione, sia per quanto riguarda la proroga o la prosecuzione, sia per quanto attiene allo svolgimento del rapporto.

Con un intervento da subito molto discusso l'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge n. 112/2008 ha inserito, nel D.Lgs. n. 368/2001, l'art. 4-bis (rubricato “Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine”), in base al quale per i “soli giudizi in corso” alla data del 22 agosto 2008 (entrata in vigore della legge di conversione), con salvezza delle sentenze passate in giudicato, per la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e 4 del D.Lgs. n. 368/2001, il datore di lavoro “è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”, sfuggendo, dunque, alla conversione in un rapporto a tempo indeterminato.
Su tale disposizione si sono immediatamente concentrate le attenzioni della magistratura di merito che nel corso della trattazione dei giudizi pendenti si è occupata della questione di incostituzionalità (23) sollevata dinanzi alla Corte costituzionale e da questa decisa con sentenza 14 luglio 2009, n. 214, con la quale l'art. 4-bis del D.Lgs. n. 368/2001 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell'art. 3 Cost. (24)
Da ultimo, l'art. 32, commi 5-7, della legge n. 183/2010 si occupa nuovamente della misura della sanzione nei casi di conversione del contratto a tempo determinato a seguito di sentenza (25).
Il comma 5 prevede che il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, tenendo conto dei criteri di cui all'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.
Nel comma 6 si precisa però che qualora i contratti collettivi di lavoro (nazionali, territoriali o aziendali), stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità è di 6 mensilità.
Una delicata questione interpretativa sulla portata della nuova indennità omnicomprensiva ha spinto i commentatori a delineare tre distinte soluzioni:
a) l'indennità sarebbe da intendersi sostituiva sia della trasformazione del rapporto che della eventuale retribuzione maturata dal lavoratore nel periodo compreso fra la data di cessazione del rapporto e la data di decorrenza della riammissione in servizio;
b) l'indennità sarebbe sostituiva soltanto della eventuale retribuzione maturata dal lavoratore nel periodo tra la cessazione del rapporto e la decorrenza della riammissione in servizio, restando ferma l'effettiva trasformazione;
c) l'indennità sarebbe aggiuntiva sia alla trasformazione che alla eventuale retribuzione maturata nel periodo di non lavoro.
Una ragionevole interpretazione della disposizione spingerebbe a sostenere che resta ferma la trasformazione derivante dalla conversione del contratto a termine che deriva dalla riconosciuta illegittimità della apposizione del termine, mentre per il risarcimento del lavoratore la legge n. 183/2010 ha introdotto una indennità onnicomprensiva in sostituzione della retribuzione maturata nel periodo tra la data di cessazione del rapporto e la successiva riammissione in servizio (26).
Sulla questione, peraltro, si è posizionata la giurisprudenza di merito e di legittimità.
Per una convivenza della conversione del rapporto con l'unica indennità omnicomprensiva si sono pronunciati: Trib. Milano 29 novembre 2010, n. 4966; Trib. Milano 29 novembre 2010, n. 4971; Trib. Milano 2 dicembre 2010, n. 5058; Trib. Roma 16 dicembre 2010, n. 2970.
Al contrario opta per una applicazione della nuova indennità in aggiunta alla conversione automatica del contratto per nullità del termine e alla condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni nel frattempo maturate: Trib. Busto Arsizio 29 novembre 2010, n. 528.
Su un piano squisitamente processuale, con riferimento all'ambito temporale di applicazione della norma, l'art. 32, comma 7, ha stabilito che le nuove disposizioni si applicano a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data del 24 novembre 2010 (entrata in vigore della legge n. 183/2010), rispetto ai giudizi pendenti, per la determinazione della indennità, il giudice esercita i poteri istruttori dell'art. 421 c.p.c. ed assegna alle parti un termine per integrare la domanda e le eccezioni.
Anche su questo fronte, tuttavia, la giurisprudenza ha già maturato orientamenti contrastanti.
Così App. Roma 24 novembre 2010 e App. Milano 14 dicembre 2010 hanno escluso l'applicazione della norma nei processi di appello, mentre in senso opposto, aderente al dettato normativo, si è pronunciato Trib. Roma 28 dicembre 2010 e a seguire la stessa Suprema Corte con l'ordinanza n. 2112 del 20 gennaio 2011 di cui meglio si dirà appresso.
D'altra parte sempre dalla Cassazione giunge la previsione di taluni limiti all'efficacia “retroattiva” dell'art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010: con sentenza n. 65 del 3 gennaio 2011 è stato precisato che l'applicazione retroattiva della disposizione trova un preciso limite nel giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria conseguente alla impugnazione del termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro; mentre con la successiva sentenza n. 80 del 4 gennaio 2011 è stata ritenuta ammissibile l'applicazione retroattiva della norma solo nelle fattispecie per le quali la attuale disciplina risulti pertinente alle questioni sollevate nel ricorso con formulazione di specifico quesito circa le conseguenze patrimoniali della nullità del termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro.
Peraltro, il Trib. Trani, con ordinanza del 20 dicembre 2010, ha inteso sollevare una questione di legittimità costituzionale delle disposizioni di cui ai commi 5, 6 e 7 dell'art. 32 della legge n. 183/2010, con riferimento agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost. in ragione della supposta disparità di trattamento che deriverebbe dalla previsione di una indennità omnicomprensiva (27).
Da ultimo, proprio sulla questione di legittimità costituzionale, ha avuto modo di pronunciarsi la stessa Suprema Corte, la quale nel sancire l'applicabilità ai giudizi pendenti in Cassazione della nuova disciplina, ha argomentato sulla definizione data dal legislatore alla indennità che in quanto definita “onnicomprensiva” potrebbe avere significato proprio “solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore, indennitario o risarcitorio: pertanto, i commi 5 e 6 escludono ogni tutela reale e lasciano la possibile, grave sproporzione fra indennità e danno effettivo, connesso al perdurare dell'illecito”. Su questa base con la citata ordinanza n. 2112 del 20 gennaio 2011 la Corte di Cassazione ha eccepito la legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183/2010 per contrasto con gli articoli 3, 4, 24, 111 e 117 Cost., sostenendo, fra l'altro, la potenziale capacità della nuova disciplina di ledere il diritto al lavoro e sottolineando la sproporzione fra la tenue indennità prevista dal legislatore e il danno, che comporterebbe lo spostamento sul datore di lavoro di comportamenti processuali dilatori.
Ancora con riferimento alla indennità omnicomprensiva introdotta dall'art. 32 della legge n. 183/2010 l'Inps con la Circolare n. 40 del 22 febbraio 2011 ha chiarito che per la natura risarcitoria della somma l'indennità va esclusa dalla base imponibile ai fini contributivi.
(24) Per una analisi della pronuncia della Corte cost. si vedano M.R. Gheido, A. Casotti, Contratto a termine e sanatoria per i giudizi in corso, in Dir. prat. lav., 2009, 32, 1869 s.
(25) Cfr. S. P. Emiliani, La nuova indennità per la conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, in G. Proia, M. Tiraboschi (a cura di), La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro. Commentario alla legge 4 novembre 2010, n. 183 (cd. Collegato lavoro), Giuffré, Milano, 2011, 205 s.; A. Corvino, L'impugnazione del contratto a termine, in M. Tiraboschi (a cura di), Collegato lavoro. Commento alla legge 4 novembre 2010, n. 183, in Il Sole 24 Ore, Milano, 2010, 87-89 s.; F.M. Putaturo Donati, Il risarcimento del danno nel contratto a termine, in M. Cinelli, G. Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro nella legge 4 novembre 2010, n. 183, Giappichelli, Torino, 2011, 291 s. In argomento si veda anche la ampia Relazione n. 2 del 12 gennaio 2011 elaborata dall'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione dal titolo: Problematiche interpretative dell'art. 32, commi 5-7, della legge n. 183/2010 alla luce della giurisprudenza comunitaria, Cedu, costituzionale e di legittimità, in www.cortedicassazione.it.
(26) In questo senso si rinviene nei lavori preparatori (Dossier di documentazione del d.d.l. 1441-quater f) una specifica dichiarazione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali in ordine all'interpretazione del comma 5, dell'articolo 32, da cui si desume che la previsione del risarcimento del danno si aggiunge e non sostituisce il ripristino del rapporto di lavoro («Signor Presidente, il Governo condivide quanto poco fa richiamava il presidente della XI Commissione. Invero, al Senato è stato presentato un ordine del giorno con lo scopo di chiarire la portata della norma citata e il Governo ha accettato quell'ordine del giorno; pertanto, non ho alcuna difficoltà a ribadire che un'oggettiva lettura della norma stessa conduce a ritenere che la conversione di cui si parla sia la conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato, e che quindi non vi sia conflitto fra la conversione a tempo indeterminato e quella definizione di risarcimento, anzi i due termini coabitano»).
(27) Fra le affermazioni sostenute dal Trib. Trani rileva quella secondo cui «non avrebbe alcun senso logico (prima ancora che giuridico) parlare di conversione (e, quindi di ricostruzione ex tunc) di un rapporto, se a questa non si ricolleghi pure il diritto del lavoratore a percepire - così come accade per i licenziamenti illegittimi intimati in area di stabilità reale - tutte le retribuzioni (a partire dalla lettera di messa in mora e fino all'effettiva reintegra, al netto dell'aliunde perceptum) e, soprattutto, il diritto a beneficiare della regolarizzazione della posizione contributiva».

L'art. 32 della legge n. 183/2010, infine, riscrive l'art. 6, commi 1 e 2, della legge n. 604/1966, prevedendo che il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, ovvero dalla comunicazione dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
Il comma 2 novellato dell'art. 6 stabilisce che l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 270 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato; qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
Il secondo comma dell'art. 32 della legge n. 183/2010 prevede, inoltre, che l'art. 6 della legge n. 604/1966, come modificato dal comma 1 dello stesso art. 32, si applica a tutti i casi di invalidità e di inefficacia del licenziamento, mentre, più specificamente, il successivo terzo comma dell'art. 32 del Collegato lavoro estende l'applicazione della norma, fra l'altro, anche ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla legittimità del termine apposto al contratto, nonché alle azioni di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del D.Lgs. n. 368/2001, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo (28).
Il quarto comma dell'art. 32, infine, estende ulteriormente l'applicazione dell'art. 6 della legge n. 604/1966 ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del D.Lgs. n. 368/2001, in corso di esecuzione alla data del 24 novembre 2010 (entrata in vigore della legge n. 183/2010) e ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al D.Lgs. n. 368/2001, già conclusi alla data di entrata in vigore del Collegato lavoro.
D'altro canto, più di recente, l'art. 2, comma 54, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, come convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, ha inserito nell'art. 32 della legge n. 183/2010, dopo il primo comma il nuovo comma 1-bis, in base al quale in sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all'art. 6, comma 1, della legge n. 604/1966, come novellato dalla stessa legge n. 183/2010, “relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere 31 dicembre 2011”.
Tuttavia l'interpretazione della norma (che potrebbe derivare da un ulteriore intervento normativo richiesto al Governo con apposito Ordine del giorno parlamentare) appare foriera di scenari differenti (29): da un lato, secondo il tenore letterale della disposizione, lo slittamento al 31 dicembre 2011 riguarda i nuovi termini di decadenza e inefficacia introdotti dalla legge n. 183/2010 soltanto per il regime di impugnazione dei soli licenziamenti; dall'altro l'estensione dello slittamento operativo delle previsioni del primo comma dell'art. 32 del Collegato lavoro a tutte le ipotesi cui il medesimo regime di impugnazione è esteso dalla stessa legge n. 183/2010.
Peraltro, nella disamina parlamentare degli interventi emendativi apportati al d.l. n. 225/2010 (cd. `milleproroghe 2011') si palesa come solo la prima delle due interpretazioni appena prospettate possa trovare accoglimento, in considerazione del fatto che nel testo definitivo approvato il 26 febbraio dal Senato non trova posto la seconda parte della disposizione che era stata introdotta in sede di emendamento volta a prorogare anche i termini di impugnazione dei contratti a tempo determinato ai quali il regime dell'art. 6 novellato della legge n. 604/1966 è esteso.


(28) La giurisprudenza ante legge n. 183/2010 aveva escluso l'applicabilità dei termini di decadenza di cui alla legge n. 604/1966 («in caso di nullità del termine apposto al contratto di lavoro non sussiste per il lavoratore cessato dal servizio l'onere di impugnazione nel termine (di sessanta giorni) previsto a pena di decadenza dall'art. 6, legge 15 luglio 1966, n. 604 (che presuppone un licenziamento), atteso che il rapporto cessa per l'apparente operatività del termine stesso in ragione dell'esecuzione che le parti danno alla clausola nulla», cfr. Cass. civ., sez. lav., 21 maggio 2007, n. 11741). In dottrina v. F. Bonfrate, La nuova disciplina relativa all'impugnazione del licenziamento, in R. Pessi (a cura di), Codice commentato del lavoro, Utet giuridica, Milano, 2011, 1594 s.; M. Petrassi, Il nuovo regime delle decadenze nel diritto del lavoro, in G. Proia, M. Tiraboschi (a cura di), La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro. Commentario alla legge 4 novembre 2010, n. 183 (cd. Collegato lavoro) cit., 191 s.; A. Corvino, L'impugnazione del contratto a termine, in M. Tiraboschi (a cura di), Collegato lavoro. Commento alla legge 4 novembre 2010, n. 183, cit., 83-86 s.; M. Lamberti, L'estensione del regime delle decadenze (lavoro a termine, trasferimento d'azienda e rapporti interpositori, in M. Cinelli, G. Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro nella legge 4 novembre 2010, n. 183 cit., 251 s.; P. Tosi, Il contratto di lavoro a tempo determinato nel “Collegato lavoro” alla legge finanziaria 2010, in Ridl, 2010, n. 3; A. Vallebona, Una buona svolta del diritto del lavoro: il “collegato” 2010, in Mgl, 2010, 4.
(29) Si veda su questo punto il commento a caldo di G. Falasca, Tempi più lunghi (ma oscuri) ai ricorsi sui licenziamenti, in Sole 24 Ore, 27 febbraio 2011, 6.

Esigenza fondamentale, se non propriamente vitale, di qualsiasi sistema giuridico, e, in modo del tutto peculiare, di quello che ingloba il diritto del lavoro, è la certezza del diritto, la quale, derivando dal principio (costituzionale, art. 3 Cost.) di uguaglianza (formale e sostanziale) dei cittadini dinanzi alla legge, non può tollerare la diffusione, a qualsiasi livello, di quel soggettivismo che è padre di ogni temibile e inaccettabile arbitrio interpretativo.
La vicenda complessiva della apposizione di un termine al contratto di lavoro, vista nella sua prospettiva storica, fino a giungere alle novità introdotte dalla legge n. 183/2010, dimostra come l'operatore e l'interprete del diritto del lavoro, pur dovendo coerentemente rinunciare alla inesistente `esattezza' della noma giuridica, non per questo devono arrendersi ad un relativismo, più o meno scettico, che consenta a chiunque (sia egli un giudice o un avvocato, un accademico o un ispettore del lavoro) di poter argomentare su una qualsiasi `verità possibile'.
Da ciascun testo di legge dobbiamo (e possiamo) far discendere, in ogni circostanza, quella interpretazione “vera” che sia consona ai principi generali dell'ordinamento e costituzionalmente orientata, con uno sforzo, che deve essere preteso da tutti gli operatori e gli interpreti, di onestà e di trasparenza, volto a far sì che il cittadino (lavoratore e datore di lavoro) sappiano ridare senso al senso del principio dello `stare pactis' che significa tener fede, reciprocamente, agli impegni assunti, nel caso che ci occupa, da parte di chi assume a tempo determinato e di chi accetta di svolgere una prestazione lavorativa a termine.
E nello `stare pactis', nel caso di specie, non può non giocare un ruolo fondamentale il tempo dell'impugnazione, se questo ha soltanto l'intollerabile scopo di lucrare sul ritardo della giustizia (perché tardivamente attivata ovvero tardivamente resa); come non può non rilevare la misura del `quantum' da riconoscere a fronte dell'accordo contrattuale, inizialmente voluto e condiviso dalle parti, giudicato parzialmente illegittimo, rispetto al quale, naturalmente, deve restare ferma la necessaria trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
L'auspicio è che il balletto legislativo (temporaneamente fermo al giro di danza della legge n. 10/2011, ma forse in attesa di ulteriori interventi richiesti dal Parlamento con specifico Ordine del giorno) e il fronte giurisprudenziale (già esageratamente ampio, in appena tre mesi di vita della legge n. 183/2010) sappiano non perdere di vista l'esigenza di `certezza' dei diritti nei rapporti di lavoro alla quale, indubitabilmente, il Collegato lavoro si è ispirato e alla quale tutti, indistintamente, dovremmo saper tendere.


Fonte: IPSOA

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