In assenza della clausola dal 2013 i titoli non rientreranno nel capitale Tier-1 e 2 delle banche. Ribadito il principio del "bail-in": eventuali perdite devono essere assorbite dagli investitori .
Il principio della non esenzione degli investitori dalle perdite derivanti dalla svalutazione degli strumenti finanziari in possesso – ribadito in recenti dichiarazioni delle autorità politiche e finanziarie dell’eurozona e dell’Unione Europea – sta avendo una prima conferma concreta a seguito delle innovazioni normative proposte dal Comitato di Basilea per la sorveglianza bancaria in tema di capitalizzazione degli istituti bancari.

Come si ricorderà, lo scorso anno il Comitato aveva deliberato di escludere dal conteggio del patrimonio principale la maggior parte degli strumenti finanziari cosiddetti “ibridi”.

Sono così denominati quegli strumenti che combinano in sé le caratteristiche degli strumenti debitori e delle azioni: essi presentano di solito un dividendo prevedibile, talora con vantaggi sul piano fiscale, la possibilità di un cambio delle condizioni ad una scadenza prestabilita, l’opzione di una conversione (tipicamente, da obbligazione ad azione) e uno sconto sul prezzo dell’azione al momento della conversione.

Gli strumenti ibridi si sono dimostrati incapaci di fornire uno scudo contro possibili perdite si dagli inizi della crisi finanziaria manifestatasi nell’autunno 2008.

La maggioranza delle banche all’epoca rinunciarono alla possibilità di declassare il valore di bilancio di tali strumenti, al fine di non ledere gli interessi di alcuni potenti investitori istituzionali. Gli strumenti ibridi si dimostrarono in tal modo de facto illiquidi e le banche non potettero utilizzarli per compensare le perdite.

Tali strumenti sono quindi rimasti virtualmente in una sorta di limbo dal dicembre 2009, quando il Comitato di Basilea diramò alle autorità nazionali dei paesi aderenti la famosa direttiva contenente le proposte di modifica mirate a rafforzare la capitalizzazione del settore bancario.

Con decisione del 12 settembre 2010 gli ibridi sono stati definitivamente esclusi dal calcolo del Tier I capital.

Il risultato fu naturalmente quello di sancire la paralisi per questo segmento di mercato, che soprattutto per le banche regionali USA era divenuto col tempo una fonte primaria di raccolta di capitale.

Vi era un’altra faccia della medaglia, però, a rendere intollerabile la situazione protrattasi per tutto questo tempo: molte delle banche che avevano rinunciato ad avvalersi della possibilità di ridurre le perdite penalizzando gli investitori furono anche quelle che beneficiarono poi di generosi interventi pubblici a sostegno del settore.

Anche in questo caso il paradosso fu particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove gli interventi dell’amministrazione federale e della Federal Riserve mirati a salvaguardare la solidità delle banche e ad accrescere la liquidità del sistema finanziario si sono succeduti a ritmo crescente, iniziando dagli ultimi mesi del governo di Gorge W. Bush fino alla seconda, gigantesca operazione di quantitative easing decisa da Ben Bernanke.

Formalmente i due tipi di misure (diretto sostegno finanziario al settore creditizio e immissione di nuova liquidità nel sistema) possono considerarsi distinti, in concreto risultano essere due aspetti di una strategia unica di risposta alla crisi. Ma anche i governi europei non sono stati da meno: è valutato in oltre 5mila miliardi di euro l’ammontare degli interventi a sostegno delle banche europee dall’inizio della crisi ad oggi, il tutto finanziato tramite la raccolta fiscale ovvero mediante emissione di nuovo indebitamento. Il caso limite è stato quello dell’Irlanda, dove una situazione fiscale tutt’altro che compromessa – in nulla paragonabile a quella della Grecia – è rapidamente volta al peggio sotto il gravame degli interventi di salvataggio delle maggiori banche del paese.

Evidentemente la semplice esclusione degli strumenti ibridi dal Tier I capital non poteva essere la soluzione definitiva, nella misura in cui “congelava” la situazione esistente trasferendo di fatto sui contribuenti una notevole quota delle perdite finanziarie a carico degli investitori.

La stessa Commissione Europea, in una comunicazione del 6 gennaio scorso, ribadiva il principio secondo cui alle autorità nazionali devono essere poste nella condizione di poter consentire la cancellazione (write-off) del debito esistente, prioritariamente rispetto al ricorso al risparmio pubblico per operazioni di salvataggio di un prestatore in difficoltà.

Da qui la decisione del Comitato di Basilea, che – in rappresentanza di 27 paesi membri sede dei principali centri finanziari mondiali – accetta il principio che «ogni classe di strumenti di capitale [debba] interamente assorbire le perdite, nel momento la capacità operativa viene meno (point of non-viability), prima che i contribuenti siano esposti alle perdite».

Viene pertanto deciso che gli strumenti finanziari ibridi debbano contenere un meccanismo in base al quale i detentori dei titoli vengono a partecipare ad eventuali perdite (il cosiddetto bail-in).

I titoli emessi dal 2013 in avanti dovranno contenere una clausola esplicita in tal senso. In pratica, di fonte ad evento (trigger event) tale da scatenare una situazione di emergenza, l’autorità di vigilanza nazionale potrà decidere se procedere alla svalutazione degli strumenti ibridi ovvero alla loro conversione in azioni. Il trigger event è definito alternativamente come «la decisione che il write-off – in assenza il quale l’impresa [cioè la banca] non sarebbe più in condizioni di operare – è necessario, come determinato dall’autorità competente» e come «la decisione di effettuare un’iniezione di capitale pubblico, o equivalente, senza la quale l’impresa non sarebbe più in condizioni di operare».

Ogni successivo pagamento a favore dei detentori di tali titoli dovrà avvenire nella forma di azioni ordinarie.

A tale fine le banche emittenti disporranno di tutte le autorizzazioni necessarie per emettere la quantità richiesta di nuove azioni, il che dovrà in ogni caso avvenire prima dell’eventuale apporto di nuova capitale da parte della pubblica amministrazione, ad evitare il rischio di una diluizione dell’impatto. In caso di mancata ottemperanza, la sanzione è l’esclusione dei titoli in questione dal calcolo non soltanto del capitale bancario Tier-1, ma anche del capitale Tier-2.

Per gli strumenti finanziari ibridi che non rispettino la nuova normativa, ma che siano tuttavia in linea con le definizioni patrimoniali dell’accordo Basilea III, la normativa transitoria prospetta l’inclusione nella categoria degli «strumenti non più qualificati come Tier-1 addizionale o Tier-2».

La definitiva approvazione delle misure proposte dal Comitato è come di consueto subordinata alle decisioni delle istituzioni competenti, prima a livello dell’Unione Europea, poi a livello nazionale. Ma vi sono scarsissime probabilità che la sostanza del provvedimento venga mutata.

Insoddisfatte sono ovviamente le banche, che per voce delle associazioni di categoria hanno sottolineato le conseguenze negative delle nuove norme in termini di maggiore onerosità della raccolta e di crescenti difficoltà nel collocamento di tali strumenti sul mercato.

Le associazioni bancarie si sono vista respinta anche la richiesta di subordinare la facoltà della scelta fra svalutazione o conversione alla sola decisione dei governi, escludendo la discrezionalità da parte delle authorities europee di sorveglianza. I legali delle banche hanno puntato il dito sulla vaghezza definizione del momento in cui l’impresa diviene “economicamente non vitale” (point of non-viability).

La direzione sembra in ogni caso segnata.

Alle banche non resta che rassegnarsi e di fatto molte di esse hanno già iniziato a ritirare gli strumenti ibridi; si ha notizia di un’offerta dei giorni scorsi da parte di Commerzbank, che propone lo swap di passività in ibridi fino a un miliardo di euro con sconto del 40% sul nominale. Insomma, per i detentori dei titoli il danno è stato solo rinviata nel tempo.


Fonte: IPSOA

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