Con la sentenza n. 24587 del 3 dicembre, la Corte di cassazione conferma l'orientamento che considera irrilevanti le pronunce penali favorevoli ai contribuenti, stabilendo che il patteggiamento sulle accuse di evasione fiscale è una prova sufficiente per confermare l'accertamento induttivo.

Il fatto
A una società veniva contestata l'indebita detrazione dell'Iva sugli acquisti per costi concernenti operazioni inesistenti, rilevati da processo verbale di constatazione della Guardia di finanza.
Nel corso del procedimento penale, l'amministratore della società patteggiava la pena relativa alle accuse di evasione fiscale ed emissione di fatture false, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale.

In occasione del ricorso alla competente Commissione tributaria provinciale, il contribuente evidenziava l'infondatezza della pretesa erariale per mancanza di prova, ma il ricorso veniva rigettato in virtù della sentenza di patteggiamento, nel frattempo emessa dal tribunale penale.
Contrariamente alla prima decisione, ritenendo non provata la pretesa fiscale, il giudice del gravame accoglieva l'appello del contribuente.

Nel ricorso per cassazione, l'Agenzia delle Entrate sottolineava, tra l'altro, che la Commissione regionale non aveva tenuto nella debita considerazione - ai fini della valenza nel giudizio tributario - la sentenza di patteggiamento del rappresentante legale della società, avente a oggetto gli stessi fatti del procedimento tributario. Contestava, inoltre, il giudice del riesame nel punto in cui ha asserito che l'onere della prova, circa l'inesistenza delle operazioni utilizzate, fosse ascrivibile all'ufficio, anziché al contribuente.

Il giudizio
La Corte di cassazione ha sostanzialmente condiviso le conclusioni dell'Amministrazione finanziaria riguardo al cosiddetto patteggiamento intervenuto in sede penale.
In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha, in effetti, ripetutamente affermato (cfr Cassazione, sentenze nn. 18635/2006, 6380/2006, 19251/2005, 9358/2005, 4193/2003, 2724/2001, 12804/1999 e 5784/1998) che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, di cui al citato articolo 444 cpp, costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per le quali l'imputato avrebbe ammesso una insussistente responsabilità e il giudice penale avrebbe prestato fede a tale ammissione.
Ne consegue che, pur non avendo efficacia di giudicato, detta sentenza può essere utilizzata come fonte di convincimento in sede civile e, quindi, come prova nel giudizio tributario. Sostanzialmente, quindi, detta evenienza trova ingresso nel processo tributario come indizio valevole ai sensi dell'articolo 116 del codice di procedura civile.

Nel pervenire a tale conclusione, la Cassazione non ignora che la sentenza con la quale il giudice applica all'imputato la pena da lui richiesta, concordata dal Pm, non è ontologicamente qualificabile come sentenza di condanna, traendo origine, essenzialmente, da un accordo tra le parti caratterizzato dalla rinuncia dell'imputato a contestare la propria responsabilità, sicché dalla sentenza non può discendere la prova dell'ammissione di responsabilità da parte dell'imputato né può derivare l'utilizzabilità di tale prova nel processo civile.

Tuttavia, con la soluzione accolta, la Suprema corte conferma l'adesione all'indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato, in base al quale la sentenza di patteggiamento, pur non potendosi tecnicamente configurare come sentenza di condanna, è a questa equiparabile presupponendo pur sempre una ammissione di colpevolezza che esonera l'accusa dall'onere di dimostrarla.

L'orientamento di legittimità non condiviso ritiene, invece, in presenza di sentenze penali favorevoli al contribuente in vicende aventi a oggetto i medesimi fatti del procedimento tributario, "irrilevante" tale esito favorevole al contribuente, stante l'indipendenza dei due procedimenti (Cassazione, sentenza n. 6047/2003).

Riguardo, poi, all'onere della prova in materia di acquisti fittizi, anche qui l'Amministrazione finanziaria risulta vittoriosa, significando, dal punto di vista della contestazione di materia imponibile e della facoltà di detrazione dell'Iva, che l'inesistenza di una determinata operazione deve essere provata dall'Amministrazione, quale parte attrice sostanziale del rapporto tributario dedotto davanti all'organo giurisdizionale.
Conseguentemente, spetta all'Erario l'onere di dimostrare la falsità della fattura, intesa quale documento attestante l'effettuazione dell'operazione; tuttavia, laddove siano dedotti indizi idonei a confutare la veridicità dei documenti contabili, spetterà al contribuente l'onere di dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni imponibili (Cassazione, sentenza n. 15395/2008).

Infatti, secondo l'orientamento della Corte di cassazione, qualora l'Amministrazione contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture, in quanto relative a operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziali sulla inesistenza delle operazioni fatturate, è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indebiti, non assumendo rilievo la propria buona fede (Cassazione, sentenza n. 2847/2008). E invero, se l'Amministrazione fornisca validi elementi - alla stregua dell'articolo 54, comma 2, Dpr 633/1972 - per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie, passerà sul contribuente l'onere di dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni contestate (cfr Cassazione, sentenze nn. 27072/2008 e 18549/2010).


Fonte: Agenzia Entrate

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