Con la sentenza n. 37818 la Corte di Cassazione, Terza sezione penale, si è nuovamente pronunciata, il 25 ottobre 2010, sulla materia del made in Italy, fornendo interessanti indicazioni circa gli obblighi dell'imprenditore che commercializza prodotti realizzati all'estero con materie prime italiane.Con la sentenza n. 37818 la Corte di Cassazione, Terza sezione penale, si è nuovamente pronunciata, il 25 ottobre 2010, sulla materia del made in Italy, fornendo interessanti indicazioni circa gli obblighi dell’imprenditore che commercializza prodotti realizzati all’estero con materie prime italiane.

Nella fattispecie, la Suprema Corte era stata chiamata a valutare una pronuncia della Corte d’Appello di Genova, la quale, il 14 gennaio 2010, confermando la sentenza del 15 novembre 2006 del Tribunale di Genova, aveva condannato un’impresa per aver presentato alla dogana italiana, per l’immissione in consumo, portafogli di pelle confezionati in Cina, recanti due diciture, una, “Vera Pelle Italy”, impressa sulla pelle, e l’altra “Made in PRC”, stampata su un piccolo adesivo apposto in un angolo dei portafogli stessi.

La Corte d’Appello di Genova, in particolare, dopo aver accertato che la pelle era effettivamente italiana, aveva ritenuto che la condotta dell’imprenditore si configurasse come tentativo di ingannare il consumatore circa il luogo di produzione del portafogli e quindi di indurlo a scelte d’acquisto diverse da quelle che egli avrebbe posto in essere se fosse stato correttamente informato o, quanto meno, se non fosse stato dis-informato. Tale condotta, secondo la Corte di Genova, si configurerebbe pertanto come violazione dell’art. 4 comma 49 della legge n. 350 del 2003 e dell’art. 517 codice penale.

La disposizione della legge 350/2003, in particolare, precisa che “L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale.

Costituisce falsa indicazione la stampigliatura «made in Italy» su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana”.

L’art. 517 c.p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) prevede che “chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti ad indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto, è punito se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire due milioni”.

Chiamata ad esprimersi sul caso, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione ha completamente ribaltato l’orientamento della Corte d’Appello di Genova, ritenendo che, non sussistendo in capo all’imprenditore un obbligo positivo di indicare con chiarezza il luogo di fabbricazione del prodotto, nella condotta in esame non poteva ravvisarsi alcuna illegittimità né alcun intento ingannevole, visto peraltro che, da un lato, l’indicazione “Vera Pelle Italy” conteneva una informazione corretta e, dall’altro, la dicitura “Made in PRC”, seppure non impressa sulla pelle, quanto meno non era fallace e dunque certamente non poteva essere considerata come un tentativo d’ingannare il consumatore.

La Corte ha colto, peraltro, l’occasione per ribadire il proprio importante ed ormai costante orientamento, secondo il quale l’elemento essenziale, ai fini dell’affidamento del consumatore e quindi ai fini della disposizione di cui all’art. 4 comma 49 della legge n. 350/2003, è la provenienza da una data azienda e non da un determinato luogo.

Si tratta del concetto, fondamentale, di “origine imprenditoriale”, in accordo con il quale la Suprema Corte, con giurisprudenza costante, ha ripetutamente affermato che, ai sensi dell'art. 517 cod. pen. e dell'art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, relativamente ai prodotti industriali, per «provenienza ed origine» della merce non deve intendersi (ad eccezione delle specifiche ipotesi espressamente previste dalla legge) la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, totale o parziale, bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti (Sez. 111, 7 luglio 1999, Thum, m. 214.438; Sez. 111, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110; Sez. III, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora, m. 231831; Sez. III, 19.4.2005, D. 34103, Tarantino, m. 232397; Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468; Sez. III, 24.1.2007, n. 8684, Emili, m. 236087; Sez. III, 15 marzo 2007, n. 27250, Contarini, m. 237812; Sez. III, 28.9.2007, D. 166/08, Parentini, m. 238560; Sez. III, 10.2.2010, Beltrame; Sez. III, 9.2.2010, Follieri, n. 19746).

Una prospettiva, quella espressa dalla Corte di Cassazione, che offre stimoli ed interrogativi di livello elevatissimo, toccando i profili più alti e critici del rapporto tra materiale ed immateriale e andando ad inserirsi, forse suo malgrado, in un solco culturale e giuridico, ancora ampiamente inesplorato, della globalizzazione, che sembra travalicare abbondantemente i confini della produzione industriale, per toccare ad esempio la questione della nascita della vita come pure le teorie giuridiche internazionali della cittadinanza e le loro applicazioni operative dello ius soli e dello ius sanguinis.

Restando nello specifico del made in, si deve, altresì, ricordare, solo pochi mesi fa la Corte di Cassazione (Sez. III, 9.2.2010, n. 19746) aveva pure chiarito che un reato può configurarsi soltanto laddove l’imprenditore attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato “in un paese diverso da quello di effettiva fabbricazione (paese da individuare secondo le disposizioni del codice doganale europeo)” giacché in tal caso non avrebbe più rilievo “la provenienza da un dato imprenditore che assicura la qualità del prodotto, ma il fatto che la falsa specifica attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un determinato paese è comunque idonea ad ingannare il consumatore e ad incidere sulle sue scelte (egli potrebbe indursi, per i più diversi motivi,ad acquistare o non acquistare un prodotto proprio perché fabbricato o non fabbricato in un determinato luogo)”.


La sentenza n. 37818/2010 pare confermare anzitutto un dato: la materia del “made in” non potrà mai essere disciplinata esaustivamente con norme positive poste dal legislatore nazionale, sia perché su di essa insistono, com’è ovvio e necessario, trattandosi di fenomeni economici di natura e rilevanza internazionale, regole del diritto internazionale, sia perché, più a monte, gli schemi della civil law, nel contenere l’ambizioso tentare di definire, una volta per tutte, attraverso la norma scritta, il bilanciamento ottimo tra tutti gli interessi in gioco e la disciplina ottima rispetto alle mutevoli condotte imprenditoriali e commerciali, appaiono di per sé chiaramente inadeguati.

In questo quadro, se da un lato il legislatore italiano, quasi rassegnato al ridimensionamento del proprio ruolo all’emanazione di norme-manifesto destinate a rimanere prive di reale incidenza sui fatti del mercato, continua ad intervenire sulla materia in modo confuso e contraddittorio (eloquenti i casi del d. lgs. 196 del 2003, contenente l’obbligo d’indicazione del “made in” per tutti i prodotti d’importazione, la cui applicazione veniva però “sospesa” con una Circolare del Ministero delle Attività produttive, quello della legge n. 55 del 2010, contenente disposizioni la cui effettiva entrata in vigore è stata rinviata sine die in quanto subordinata all’emanazione di un decreto interministeriale come pure il caso dell’art. 17 della Legge n. 99/2009 che, dopo poco più di un mese dalla sua entrata in vigore, veniva abrogato dal d. l. 25 settembre 2009, n. 135), dall’altro i paradigmi della common law, di cui autorevolmente si sta facendo portavoce la Corte di Cassazione, paiono invece fornire elementi altamente interessanti, capaci di offrire chiavi di lettura rilevanti non soltanto sulle vicende puntuali del made in Italy e della protezione del consumatore, ma, più in generale, sull’interpretazione di alcuni fenomeni cruciali della globalizzazione, con particolare riferimento al rapporto tra, da un lato, la distribuzione, su più paesi, della produzione da parte delle aziende, e, dall’altro, l’unicità della paternità del prodotto agli occhi del consumatore.

Seppure all’interno di un quadro che comincia ad avere una sua affiorante intelligibilità sistemica, restano ampiamente da approfondire diversi punti, a partire dal rapporto tra le norme comunitarie e il diritto internazionale, visto che la stessa Corte di Cassazione continua a fare riferimento, ai fini del made in, al luogo di fabbricazione, quale individuato dalle disposizioni del codice doganale europeo, ignorando dunque, completamente, norme e princìpi posti sul punto dagli Accordi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Accordo sulla proprietà intellettuale; Accordo sulle barriere tecniche al commercio; Accordo GATT; Accordo sulle regole d’origine) e quindi mancando di valutare la legittimità, da verificare anche sotto il profilo costituzionale (si pensi all’art. 11 Cost.), delle disposizioni comunitarie in contrasto con essi. In conclusione, sembra potersi ravvisare, attraverso le pronunce della Corte di Cassazione, l’emersione di un approccio “made in Italy” alla questione, di rilevanza globale, del “made in”. Mancano ancora molti anelli di connessione, che potrebbero forse garantire un utile arricchimento reciproco nelle dinamiche evolutive che il dibattito sta vivendo a livello nazionale ed internazionale.

Eloquente, a tale ultimo riguardo, l’impostazione della Circolare 20/D del 13 maggio 2005 dell’Agenzia delle Dogane, nella quale, con un candore che forse sconfina nella sconsideratezza, da un lato si riconosceva che un contributo importante al quadro disciplinare del “made in” sarebbe stato fornito dai negoziati di Ginevra dell’Organizzazione Mondiale del Commercio relativi all’armonizzazione, a livello mondiale, delle regole di origine non preferenziale, e dall’altro, ai fini della soluzione dei problemi operativi in essere, si rinviava, non, come sarebbe stato, e sarebbe, lecito attendersi, alle vigenti norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ma addirittura alle posizioni negoziali (dotate di rilevanza giuridica assolutamente nulla) che la Commissione Europea aveva presentato presso la stessa Organizzazione di Ginevra. Rispetto alla resistente barriera che gli schemi europei (vale ricordare che la Commissione Europea e la Corte di Giustizia delle Comunità Europee giudicano non rilevanti le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio) ed europeisti pongono da troppi anni nel rapporto tra il diritto italiano ed il mercato globale, deve dunque registrarsi come il rigore della Corte di Cassazione stia operando da diversi anni come l’unico, sano ed efficace, agente di erosione.

L’auspicio è che altre filiere acquistino presto consapevolezza della necessità che, almeno sul made in, diritto e globalizzazione stipulino presto un patto d’alleanza, e ciò a beneficio non soltanto delle imprese italiane e dei consumatori, ma della qualità dello stesso diritto internazionale e della stessa globalizzazione, evidentemente legati l’uno all’altro da un legame indissolubile di reciproca alimentazione.

(Cassazione civile Sentenza, Sez. III, 25/10/2010, n. 37818)


Fonte: IPSOA

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