La Corte di cassazione, con sentenza 20197 del 24 settembre, ha ancora una volta sancito la legittimità di un accertamento Iva a carico di una società di capitali basato sui conti bancari formalmente intestati a soci e dipendenti.

La vicenda processuale
La Guardia di finanza raccoglie elementi in funzione di polizia giudiziaria a carico di una società, i quali vengono poi utilizzati in sede tributaria dopo averne ottenuto l'autorizzazione dal giudice penale inquirente. Ciò in quanto, durante l'indagine, erano stati rinvenuti versamenti "senza titolo" su conti correnti bancari, in parte intestati ai soci e in parte a dipendenti, per cui l'ente impositore notificava alla società per azioni, su tale base, una rettifica in materia di Iva, contestando per l'anno ispezionato il maggiore imponibile emerso, con recupero della correlata imposta.

Le conseguenti impugnazioni hanno avuto esito favorevole al contribuente, ritenendo i giudici di merito:
1.che l'ufficio abbia travisato l'uso della metodologia accertativa, avendo operato apparentemente con un avviso di rettifica ai sensi dell'articolo 54 del Dpr 633/1972, mentre in realtà avrebbe utilizzato - quindi al di fuori delle tassative ipotesi previste - l'accertamento induttivo di cui al successivo articolo 55
2.che l'ufficio non avrebbe provato l'ipotesi considerata, non avendo offerto alcun riscontro "del presunto collegamento tra le movimentazioni bancarie dei soggetti sottoposti a indagine e le operazioni d'impresa poste in essere dalla società comparente".

La sentenza del riesame è ora gravata da ricorso per cassazione, con il quale l'Amministrazione finanziaria tende sostanzialmente a demolire - in evidenza dell'erroneità dell'esposizione dei fatti da parte del contribuente condivisa dai giudici di merito - l'impalcatura difensiva di controparte, rilevando:
•l'insussistente uso improprio della metodologia accertativa, poiché l'ufficio si è avvalso esclusivamente della rettifica analitica e non, come asserito, dell'accertamento induttivo
•che i versamenti affluiti sui conti correnti esaminati erano intestati a "soci" e "dipendenti" della società, dei quali però non è stata data idonea giustificazione della loro provenienza.
Infatti, durante l'istruttoria, da un lato i soci hanno disertato l'invito dell'ufficio a presentarsi per fornire le dovute spiegazioni sull'origine delle operazioni di conto, dall'altro i dipendenti o sono apparsi del tutto ignari dell'intestazione del conto a loro nome ovvero non hanno fornito documentazione atta a fugare l'addebito mosso.

Motivi della decisione
La Corte di cassazione ha completamente ribaltato i giudizi di prime cure, decidendo che le contestate operazioni di conto intestate a soggetti facenti parte della compagine societaria, in qualità di componenti di amministrazione (soci) o con legami di lavoro subordinato (dipendenti), erano da considerarsi del tutto legittime, per cui era da valorizzare la rettifica operata a carico della società per gli afflussi ingiustificati sui conti bancari "fittiziamente" intestati a tali soggetti.

Sicché la Corte viene ad accogliere le censure dell'Amministrazione circa la mancata valutazione da parte del giudice del riesame di quelle circostanze che venivano a costituire presunzioni gravi, precise e concordanti (articolo 2729 del codice civile), scaturenti dal fatto che i conti fossero frutto di attività societarie non dichiarate.
Con puntualità, la sezione tributaria ha infatti precisato che "ai sensi dell'art. 51, primo comma, del D.P.R. 633/1972, l'utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all'ente, ma riguarda anche quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorché risulti provata dall'Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell'intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all'ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati" (cfr Cassazione, sentenze 16062/2010, 8507/2010, 8422/2002, 3929/2002, 8457/2001, 2435/2001 e 9946/2000).

Il giudice d'appello, pertanto, ha fatto malgoverno delle acquisizioni processuali, in quanto non ha valutato, nella loro corretta dimensione, le gravi lacune del contribuente nel fornire la prova liberatoria al cospetto delle "insinuazioni" dell'Amministrazione finanziaria, costituite queste dall'incontestabile valore indiziario del comportamento degli intestatari dei conti bancari.
Tali risultanze erano, infatti, univocamente orientate a far desumere che su tali conti affluissero, in realtà, operazioni "proprie" della società non transitate nelle scritture contabili ufficiali, ma non deponevano certo per l'estraneità delle operazioni all'attività del soggetto Iva.
Il secondo giudice, invece, non ha esitato a rilevare - surrettiziamente - che l'ufficio aveva mancato di provare i propri addebiti (cfr Cassazione, sentenze 1728/1999, 8683/2002, 13391/2003, 27032/2007 e 7766/2008).
Circostanze che consentono di affermare, in definitiva, che la motivazione della sentenza impugnata non è altro che una mera ricopiatura delle difese della società.

Altre enunciazioni
E' doveroso sottolineare, ancora, che con la pronuncia 20197/2010, la Corte regolatrice ha anche confermato altri due importanti principi:
1.che non è invalida l'autorizzazione del procuratore della Repubblica a trasmettere la documentazione dell'istruttoria penale concessa dopo che i dati siano stati utilizzati nel processo tributario, in quanto la predetta autorizzazione è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel relativo procedimento o di terzi, con la conseguenza che nessuna rilevanza poteva essere ricollegata dal giudice tributario all'incompetenza dell'organo inquirente a concedere l'autorizzazione (cfr Cassazione, sentenze 9149/2010, 7279/2009, 22173/2008 e 15538/2002)
2.che la legittimità dell'utilizzazione dei movimenti dei conti correnti bancari non è condizionata dalla previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente sin dalla fase dell'accertamento, atteso che gli articoli 32 del Dpr 600/1973, e 51 del Dpr 633/1972, prevedono il contraddittorio come oggetto di una mera facoltà dell'Amministrazione tributaria e non di un suo specifico obbligo (cfr Cassazione, sentenze 2821/2008, 10964/2007, 14675/2006 e 18421/2005).


Fonte: Agenzia Entrate

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