E' legittimo l'accertamento basato sui dati extra-contabili raccolti dagli organi di verifica, anche se il reperimento degli stessi è avvenuta in maniera irrituale. E' il principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 3388 del 12 febbraio.

La pronuncia si riferisce a una verifica della Guardia di finanza nei confronti di una società a responsabilità limitata. In particolare, il personale della Gdf aveva emesso a carico della Srl un processo verbale di constatazione, concernente una maggiore Iva, motivando il recupero sulla base di una presunta utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti.

Dopo la conferma dell'accertamento in primo grado, la Ctr accoglieva il ricorso della società, perché i dati su cui si fondava la pretesa dell'Amministrazione finanziaria erano stati acquisiti dalla Gdf su supporti informatici trovati in locali diversi dalla sede della società, mancando, quindi, una specifica autorizzazione.

Il ricorso per Cassazione
La Corte ha accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate sulla base delle seguenti motivazioni.
In tema di accessi, ispezioni e verifiche, l'articolo 33, comma 1, del Dpr 600/1973, richiama l'articolo 52 del Dpr 633/1972. Quest'ultima disposizione prevede che per l'accesso degli impiegati dell'Amministrazione finanziaria in locali adibiti ad attività commerciali, è necessaria apposita autorizzazione del capo dell'ufficio da cui gli impiegati dipendono. Non è prevista, inoltre, una specifica causa di nullità dell'attività istruttoria qualora tale precetto non sia rispettato.
Se l'accesso avviene, al contrario, in un domicilio privato, è necessaria anche l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria; in mancanza di quest'ultima, l'accesso è illegittimo per violazione del principio costituzionale di inviolabilità del domicilio.

Nel caso in esame, l'accesso non aveva interessato il domicilio privato del rappresentante legale, bensì un locale relativo alla società: il luogo dove venivano custoditi dei supporti informatici contenenti dati aziendali.
Inoltre, se anche questo centro elaborazione dati fosse potuto essere ricondotto a un soggetto "terzo" rispetto al contribuente sottoposto a verifica, l'articolo 39 del Dpr 600/1973 non stabilisce l'impossibilità di utilizzare a fondamento della pretesa tributaria delle prove reperite in modo irrituale, a condizione che la documentazione "extra-contabile" rinvenuta sia attendibile e, quindi, idonea a rappresentare la situazione economico-patrimoniale del contribuente.

Conclusioni
La sentenza offre alcuni spunti di riflessione, in quanto i principi in essa espressi si riverberano sul contenzioso tra fisco e contribuente.
La pronuncia della Corte conferma, innanzitutto, un orientamento di legittimità non nuovo: il riconoscimento del valore probatorio, ai fini della pretesa fiscale, di documenti acquisiti, in sede di accesso dai nuclei di verifica, in modo irrituale.
Nel caso esaminato, l'irritualità era rappresentata dalla presunta mancanza di apposita autorizzazione del capo dell'ufficio, dal quale i verificatori dipendevano, per l'accesso nel centro elaborazione dati (qualora il medesimo fosse riconducibile a un soggetto "terzo" al contribuente).
Resta inteso che tale valore probatorio sussiste se gli elementi acquisiti risultano idonei alla ricostruzione della posizione fiscale del soggetto sottoposto a verifica.

Ulteriore spunto di riflessione è dato dall'affermazione del principio di "inversione dell'onere della prova" in caso di accertamento basato su documenti extra-contabili, che non costituiscono parte integrante delle scritture contabili obbligatorie dell'impresa.
A tal proposito, i documenti e gli appunti acquisiti nel corso di una verifica fiscale, che realizzano nel loro complesso una vera e propria contabilità "in nero", costituiscono presunzioni semplici, dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
In tale ipotesi, spetterà, pertanto, al contribuente fornire la prova contraria dell'irrilevanza della documentazione a fondamento della pretesa tributaria.


Fonte: Agenzia Entrate

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