Con la sentenza n. 17362 del 24 luglio 2009 la Corte di cassazione ha stabilito che, ai fini della validità dell’accertamento Irpef, non rileva la mancata indicazione dell’aliquota applicata se la stessa è comunque desumibile dal contribuente in forza degli elementi in suo possesso. In tal modo, la Suprema corte ha confermato sul punto la valenza amministrativa dell’accertamento.

Il fatto

La vicenda concerne l’opposizione davanti la competente Ctp di vari avvisi di accertamento relativi a due coniugi, che avevano presentato dichiarazione congiunta, riguardanti sia il reddito di partecipazione in una società, sia quello relativo a un fabbricato. In particolare, i ricorrenti contestavano il reddito accertato poiché l’ufficio aveva indicato soltanto le aliquote minima e massima, così che l’atto impositivo sarebbe nullo perchè non idoneo a ricostruire tutto l’arco delle aliquote progressive e la determinazione dell’imposta secondo i relativi scaglioni di reddito.

La Commissione tributaria provinciale dichiarava nulli parte degli accertamenti, proprio per la “mancata indicazione dell'aliquota applicata”, respingendo nel resto.

L’ente impositore esperiva appello nelle parti sfavorevoli, sostenendo il vizio di “ultrapetizione” della sentenza impugnata, quanto all’annullamento di parte dell’accertamento.

La Ctr, riteneva fondata la censura dell’Amministrazione finanziaria, accogliendo il gravame.

Avverso la sentenza di secondo grado i contribuenti propongono ricorso per cassazione con quattro motivi di impugnazione, tra questi quello fondato sulla mancata indicazione delle aliquote distinte per scaglione, che costituirebbe vizio dell’avviso di accertamento e ne comporterebbe nullità in quanto lesivo del diritto di difesa del contribuente. Nullità rilevabile d’ufficio.

Orientamenti giurisprudenziali

La Corte di cassazione, pur accogliendo il ricorso dei contribuenti per altro motivo, sulla censura concernente la mancata indicazione delle aliquote applicate ha confermato l’atto impositivo, non mancando di evidenziare le oscillanti soluzioni della giurisprudenza di legittimità in materia.

Secondo una prima prospettiva, l’orientamento prevalente (cfr Cassazione, sentenze nn. 4061/2001, 4332/2002, 13810/2005, 15381/2008) è attestato sulla nullità (ex articolo 42, commi 2 e 3, Dpr 600/1973) dell’accertamento Irpef che non riporti l’aliquota applicata su ciascun importo imponibile, ma contenga solo l’indicazione delle aliquote minima e massima, come richiesto manifestamente dal secondo comma della medesima disposizione.

L’omissione di tale indicazione determina nullità dell’atto, ai sensi del terzo comma dell’articolo 42, senza che sia consentita una valutazione di merito circa l’incidenza che essa abbia avuto, in concreto, sui diritti del contribuente. Né assume alcun rilievo il fatto che l’aliquota omessa sia in ogni caso desumibile attraverso un’operazione aritmetica.

In sostanza, il rigore nell’applicazione del criterio di “precisione e chiarezza” delle indicazioni che devono essere fornite nell’atto di accertamento è funzionale alla tutela del contribuente, che deve essere posto in condizioni di effettuare un immediato e agevole controllo sull’azione dell’Amministrazione finanziaria. È stato, quindi, abbandonato il criterio della sufficienza delle indicazioni, prima applicato agli accertamenti con la sola evidenza dell’aliquota minima e di quella massima e con rinvio alla tabella di legge per la progressione intermedia (cfr Cassazione, sentenze nn. 8020/1992 e 7188/1994). La garanzia formale del controllo immediato e agevole del titolo e delle ragioni della pretesa tributaria si giustifica con la valutazione dell’opportunità dell’impugnazione giudiziale dell’atto, che il contribuente deve fare nel rituale termine dei sessanta giorni (cfr Cassazione, sentenza n. 12394/2002).

L’eliminazione dell’accertamento rimane, invece, ancorata all’annullabilità, quando i vizi contestati investano gli elementi costitutivi della pretesa tributaria e richiedano al contribuente o all’Amministrazione finanziaria l’allegazione giudiziale dei fatti e dei presupposti dell’accertamento o la prova del fatto estintivo o modificativo del credito tributario.

In sintesi, dunque, l’accertamento è nullo se carente nei suoi profili formali, è annullabile se viziato nel suo contenuto sostanziale. Resta da aggiungere, peraltro, che la tesi della nullità dell’accertamento privo dell’indicazione, precisa e analitica, delle diverse aliquote progressive trova supporto nell’articolo 21-septies della legge 241/1990, che dichiara nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali nonché “negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.

In tale contesto, è indubbio che l’articolo 42, terzo comma, del Dpr 600/1973, che dichiara nullo l’accertamento se privo degli elementi costitutivi previsti dalla norma, rispecchi fedelmente l’ipotesi prevista dalla norma.

Va ricordato, infine, che le descritte ipotesi di nullità dell’accertamento, a norma dell’articolo 61, comma 2, dello stesso Dpr, devono essere fatte valere, a pena di decadenza, in primo grado.

D’altronde, la necessità dell’indicazione dell’aliquota applicata, per determinare l’imposta corrispondente al reddito soggetto all’Irpef a tassazione ordinaria,è un’esigenza da tempo avvertita dalla stessa Amministrazione finanziaria(Circolare n. 7/1979).

La pronuncia di legittimità

Con la sentenza n. 17362/2009, la Suprema corte aderisce, invece, all’opposto filone giurisprudenziale in base al quale, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, a fronte di un avviso di accertamento che contenga solo l’indicazione dell’aliquota minima e massima applicata e il generico richiamo alla tabella delle aliquote allegata a un testo normativo di non immediata applicazione, o perché integrata da altra norma o perché modificata da successiva norma a sua volta non richiamata nell’avviso, non è configurabile la violazione del principio di precisione e chiarezza delle “indicazioni”. Questo se non è impossibile per il contribuente effettuare il controllo sull’imposizione attraverso la tabella delle aliquote richiamata dalla norma, e l’interpretazione della medesima (cfr Cassazione, sentenze nn. 15834/2008, 430/2008, 4332/2002, 777/1993).

Sostanzialmente, ciò vuol dire che è immune da censura la sentenza del precedente grado del giudizio che ritiene non rilevante, ai fini della validità dell'accertamento, la mancata indicazione dell’aliquota applicata, allorché la stessa è comunque desumibile in forza degli elementi in possesso del contribuente (ciò avviene quando quest’ultimo è posto in grado di verificare agevolmente e immediatamente, mediante una semplice operazione contabile, l’esattezza del calcolo dell’imposta dovuta, senza ricorrere necessariamente a complesse cognizioni tecnico-giuridiche).

Tale postulato può essere superato soltanto nell’ipotesi in cui il ricorrente – secondo il principio dell’onere della prova (ex articolo 2697 c.c.) – abbia tempestivamente esposto le difficoltà incontrate in concreto a individuare le aliquote stesse (cfr Cassazione, sentenza n. 9784/2008).

Di conseguenza, la Suprema corte disattende anche l’eccezione del contribuente concernente la pretesa rilevabilità d’ufficio della nullità, per la ragione che siffatta pretesa non è conforme al criterio valorizzato che risponde alla ratio legislativa di tutelare il diritto di difesa del contribuente, nell’ipotesi in cui vi sia stata una sua effettiva lesione (cfr Cassazione, sentenze nn. 13087/2003 e 3731/1993).

In conclusione, con la pronuncia in esame si assiste a una “inversione di marcia” della Cassazione sul tema della mancata indicazione delle aliquote applicate negli atti di accertamento ai fini Irpef (discorso valevole anche per l’Iva), segnando con il ripristino del criterio della sufficienza delle indicazioni un deciso affievolimento delle posizioni pregresse.

Fonte: Agenzia Entrate

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