Nel diritto tributario italiano manca una disciplina espressa degli aspetti procedurali connessi al trasferimento di residenza delle persone fisiche. Con la risoluzione n. 471/E del 4 dicembre, l’Agenzia è intervenuta sul punto, escludendo che il trasferimento in corso d’anno possa determinare un “frazionamento” del periodo d’imposta.

 

 

La disciplina italiana sulla residenza fiscale

In base alla normativa italiana, una persona fisica può essere considerata fiscalmente residente qualora soddisfi una delle tre condizioni previste, in via alternativa, dal Tuir (articolo 2, comma 2): iscrizione nelle anagrafi tributarie della popolazione residente, residenza civilistica, domicilio.

In ogni caso, lo status di soggetto residente si acquista quando uno di questi tre requisiti sussiste per la maggior parte del periodo d’imposta. Uno straniero che si trasferisca in Italia e vi dimori per almeno 183 giorni nell’arco di un anno, ad esempio, viene fiscalmente considerato residente nel nostro Paese. Dal punto di vista tributario, l’acquisto dello status di soggetto residente ha delle conseguenze di indubbio rilievo, prima tra tutte l’assoggettamento alle imposte italiane di tutti i redditi prodotti nell’arco dell’anno, inclusi quelli realizzati all’estero.

 

Cosa succede, tuttavia, se un soggetto dimora in Italia per più di 183 giorni e poi si trasferisce in un altro Paese, acquisendone la relativa residenza fiscale?

 

Il caso

Questo è proprio quello che è accaduto al contribuente che dopo aver dimorato in Italia per alcuni anni, si era ritrasferito, per motivi di lavoro, nel proprio Paese di origine.

L’espatrio - con conseguente cancellazione dall’anagrafe tributaria, risoluzione del contratto di lavoro con la società italiana e disdetta del contratto di locazione dell’abitazione utilizzata durante la permanenza in Italia - avveniva nel mese di luglio 2007 e, dunque, successivamente al decorso del periodo minimo necessario per l’acquisto della residenza fiscale in Italia.

A seguito del trasferimento, tuttavia, il soggetto aveva maturato anche i requisiti previsti dalla normativa fiscale del proprio Stato di destinazione (la Svezia) ai fini dell’acquisto dello status di soggetto residente.

Per i redditi relativi al periodo d’imposta 2007, quindi, l’istante si trovava esposto a una probabile doppia imposizione, che la normativa convenzionale applicabile non sembrava in grado di risolvere pienamente.

 

La soluzione prospettata dal contribuente

L’interessato ha interpellato sul punto l’Amministrazione finanziaria, proponendo una soluzione, che, secondo lui, avrebbe eliminato il problema in maniera radicale.

Secondo l’istante, infatti, la normativa italiana sull’acquisto della residenza fiscale prevede una verifica su base annuale del possesso di determinati requisiti, ma non instaura un collegamento diretto tra acquisto dello status di residenza e necessaria durata del medesimo status per l’intero periodo d’imposta.

In altre parole, l’articolo 2, comma 2, del Tuir dispone che se un soggetto dimora in Italia (o è comunque iscritto alle anagrafi della popolazione residente, o mantiene nel nostro Paese il centro dei propri affari od interessi, personali o patrimoniali) per più di 183 giorni acquista lo status di soggetto residente e, dunque, paga le imposte sui redditi in Italia a prescindere dal luogo in cui questi sono prodotti. La normativa italiana tuttavia, non vieta che, in caso di espatrio dopo i 183 giorni, il soggetto perda lo status acquisito, per la sola parte residua del periodo d’imposta.

Se così fosse, il contribuente non avrebbe alcun problema di doppia imposizione, in quanto sarebbe imponibile in Italia per tutti i redditi prodotti dal 1° gennaio a metà luglio, e in Svezia per tutti i redditi prodotti da metà luglio a fine dicembre.

Questo “frazionamento” del periodo d’imposta, peraltro, non sarebbe una soluzione né innovativa né stravagante, ma una mera trasposizione delle indicazioni fornite dall’Ocse nel Commentario alle disposizioni del modello di convenzione sulla residenza fiscale.

La soluzione, dunque, colmerebbe semplicemente una lacuna dell’ordinamento italiano, avvalendosi peraltro di indicazioni condivise al livello internazionale.

 

…e la (ri)soluzione del Fisco

Dopo aver precisato che l’interpello è inammissibile, in quanto l’accertamento della residenza fiscale di un contribuente non può essere effettuato in sede di interpello interpretativo, l’Agenzia ribadisce che la normativa italiana “collega invariabilmente l’attribuzione della residenza fiscale ad una valutazione della situazione del soggetto riferibile all’intero anno d’imposta”.

Per “salvarsi” dalla condizione di doppia residenza, cui avrebbe dato luogo il proprio trasferimento in corso d’anno, il contribuente si appella a norme convenzionali e al Commentario Ocse.

Tuttavia, l’ancora di salvezza si rivela fasulla: sono infatti proprio le regole Ocse e quelle convenzionali, correttamente intese, che impediscono all’Agenzia di accogliere la ricostruzione del contribuente.

La normativa convenzionale applicabile alla fattispecie, inoltre, lungi dal consentire una deroga al principio espresso, ne conferma l’applicazione.

 

L’Ocse e il “frazionamento” della residenza fiscale

Per l’Agenzia, in particolare, l’interpretazione della normativa interna e convenzionale in materia di residenza proposta dal contribuente è inaccettabile per due ordini di considerazioni.

Il primo argomento si basa sul rilievo che il menzionato “frazionamento” non è una novità nella legislazione italiana: è presente, infatti, in alcune delle convenzioni bilaterali concluse dall’Italia, ma non nella convenzione Italia-Svezia.

Non si può certo affermare, dunque, che l’ordinamento italiano presenterebbe una lacuna, colmabile in via analogica in base ai principi espressi dal Commentario Ocse. In sostanza, le convenzioni che non ammettono il frazionamento del periodo d’imposta non sono lacunose, ma frutto di una scelta che deve presumersi consapevole.

In quest’ottica, estendere il “frazionamento” a fattispecie in cui non è espressamente previsto violerebbe il principio di sovranità e quello pattizio su cui si basa il sistema delle convenzioni patrocinato dall’Ocse.

 

Il “frazionamento” come ipotesi di tie breaker rule

Ma c’è di più.

Anche nel caso in cui il frazionamento del periodo d’imposta fosse ammesso dalla convenzione, la tesi del contribuente sarebbe inesatta, infatti, non opererebbe come integrazione dell’articolo 2, comma 2, del Tuir, ma come ipotesi di tie breaker rule.

A ben vedere, la regola del “frazionamento” non è menzionata neanche dal Commentario nell’ambito dei paragrafi dedicati alla definizione della nozione di residenza, per la quale le convenzioni si limitano a rinviare alla disciplina interna.

Al contrario, la possibilità di frazionare il periodo d’imposta di un soggetto che si sia trasferito dopo aver maturato i requisiti per l’acquisto della residenza in uno Stato contraente (ma in tempo per acquistare la residenza anche dell’altro Stato) è menzionata tra le possibili soluzioni alle ipotesi di doppia residenza (cosiddetta tie breaker rule - articolo 4, paragrafo 2, del modello di convenzione).

Contrariamente a quanto ritenuto dall’istante, dunque, il frazionamento del periodo d’imposta non evita il sorgere di un problema di doppia residenza, ma semmai, concorre a risolverlo.

 

Doppia residenza, doppia imposizione e credito d’imposta

D’altra parte, una doppia residenza non significa irrimediabilmente doppia imposizione: al contribuente resta la possibilità di avvalersi dei rimedi previsti dalla normativa interna e convenzionale e, dunque, del credito per le imposte estere.

Certo, l’applicazione tanto del credito d’imposta convenzionale, quanto di quello interno, è soggetta ad alcuni limiti, poiché non esiste alcuna norma interna, né internazionale, che impone di eliminare la doppia imposizione.


Fonte: Agenzia Entrate

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