In caso di mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte di una società, è legittimo l’accertamento Ilor fondato sull’ammontare delle rimanenze finali risultanti dalla contabilità del precedente periodo d’imposta.

Queste, in sintesi, le conclusioni cui è pervenuta la Cassazione con la sentenza 16379 del 17 giugno 2008.

La controversia nasce a seguito di notifica di un avviso di accertamento Ilor (ex articolo 41 del Dpr 600/1973, conseguente alla mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte di una società), con il quale l’ente impositore prendeva in considerazione le rimanenze finali risultanti in contabilità nel precedente periodo d’imposta e, reputandole cedute nel successivo anno - in contestazione -, applicava alle stesse la percentuale di ricarico normalmente conseguita dai soggetti esercenti attività analoghe.

Il ricorso della società destinataria dell’atto impositivo veniva accolto dalla Ctp, la cui sentenza era confermata in appello. L’Amministrazione, con il ricorso in Cassazione, lamentava come entrambi i giudici di merito, anziché richiedere al contribuente la prova del minor reddito conseguito, avessero addossato - di fatto - all’ufficio l’onere della prova.

La decisione della Suprema corte

La Cassazione, con la sentenza 16379/2008, ha accolto il ricorso dell’agenzia delle Entrate in quanto, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (sentenze 15134/2006, 3115/2006, 23480/2004, 19174/2003, 9755/2003, 17016/2002), nel caso in cui vi sia stata una omessa dichiarazione da parte del contribuente, come nel caso in esame, la legge abilita l’ufficio a servirsi di qualsiasi elemento probatorio ai fini dell’accertamento del reddito e, quindi, a determinarlo anche con metodo induttivo, non escludendo l’utilizzazione, in deroga alla regola generale, di presunzioni semplici prive dei requisiti di cui all’articolo 38, comma 3, del Dpr 600/1973, “sul presupposto dell’inferenza probabilistica dei fatti costitutivi della pretesa tributaria ignoti da quelli noti”.

In base alle argomentazioni dei giudici, che equiparano sotto questo aspetto l’attività presuntiva posta in essere in sede amministrativa a quella valutativo-processuale, se i fatti costitutivi della pretesa tributaria, originata da un “accertamento d’ufficio”, possono essere anche inferiti dall’Amministrazione finanziaria in base a presunzioni semplici, prive dei requisiti di “gravità, precisione e concordanza”, allora:

da un lato, anche il giudice tributario può legittimamente ritenere dimostrati i fatti amministrativi sulla base di siffatte presunzioni (fondando, quindi, la decisione in deroga alla regola stabilita dall’articolo 2729, comma 1, del Codice civile, secondo cui le presunzioni devono essere gravi, precise e concordanti)

dall’altro, a fronte della legittima prova presuntiva offerta dall’ufficio, incombe sul contribuente l’onere di dedurre e provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa impositiva.

In ultima analisi, ha spiegato la Suprema corte, a fronte dell’omessa dichiarazione dei redditi, il potere-dovere dell’Amministrazione, ex articolo 41 del Dpr 600/1973, comporta che, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o conosciuti, l’ente impositore è abilitato a determinare il reddito complessivo del contribuente stesso, nonché i singoli redditi delle persone fisiche soggetti all’Ilor (nel periodo in cui tale imposta era vigente), con facoltà di fare ricorso a presunzioni cosiddette “supersemplici”, comportanti l’inversione dell’onere della prova.

Il contribuente, quindi può, anzi deve, fornire elementi contrari a quelli opposti dall’ufficio per demolire la contestazione contenuta nell’avviso di accertamento.

Per i giudici, infine, i valori percentuali medi del settore non rappresentano un fatto noto storicamente provato, ma “costituiscono il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei” (Cassazione, sentenze 18038/2005 e 641/2006), con la conseguenza che tali valori, pur non integrando presunzioni gravi, precise e concordanti, costituiscono comunque una semplice “regola di esperienza” che, se non consente di presumere l’esistenza di attività non dichiarate, se non in presenza di ulteriori elementi, può essere tuttavia utilizzata per determinare il reddito nell’ipotesi disciplinata dall’articolo 41, comma 2, Dpr 600/1973. Ciò è consentito anche derogando alle disposizioni dettate dal primo comma dello stesso articolo 41, in modo da permettere all’ufficio di ricostruire il reddito anche sulla base di presunzioni prive dei ricordati caratteri (Cassazione, sentenza 7914/2007).

Il procedimento presuntivo

Con la sentenza 16379/2008, la Cassazione ha ripreso, in primo luogo, la questione relativa alla valenza del ragionamento presuntivo e superpresuntivo nell’accertamento tributario.

La pronuncia si è occupata del problema dei rapporti tra accertamento fondato su presunzioni semplici e presunzioni “supersemplici”, facendo così rilevare la necessità dell’occorrenza di un particolare presupposto per potere operare, ossia il “fatto noto”, quale una violazione del contribuente (nella specie costituita dall’omessa presentazione della dichiarazione annuale e dall’esistenza delle rimanenze contabili dell’anno precedente). Circostanza, questa, che abilita l’ufficio – in deroga ai poteri accertativi ordinari, più rigorosi rispetto a fattispecie non omissive – al particolare accertamento di cui all’articolo 41 del Dpr 600/1973, avvalendosi di una prova meno rigorosa di quella ordinaria (che deve rispondere ai requisiti di precisione, gravità e concordanza), comunque superiore alla valenza dell’indizio, senza ovviamente con ciò sfociare in induzioni vessatorie o, addirittura, meramente arbitrarie.

Tanto è vero che le norme che prevedono presunzioni “supersemplici” (quali gli articoli 39, secondo comma, e 41, secondo comma, del Dpr 600/1973) altro non sono che un riconoscimento della realtà fattuale, trattandosi di un meccanismo contemplato per ipotesi davvero estreme.

Al riguardo, la Cassazione aveva già precisato che nel ragionamento presuntivo deve ritenersi sufficiente che il fatto ignoto si manifesti come conseguenza logicamente ricollegabile al fatto noto, sulla base dell'id quod plerumque accidit; in termini, non di necessità ma di mera probabilità (sentenze 934/1986, 5052/1987 e 4307/1992).

In secondo luogo, la sentenza ha stigmatizzato il comportamento del giudice del riesame per il fatto che quest’ultimo, anziché appurare se il contribuente avesse o meno assolto al proprio onere probatorio diretto a dimostrare l’infondatezza della pretesa erariale, aveva invece annullato l’atto impugnato ritenendo nel merito che l’operata ricostruzione induttiva dei ricavi non reggeva.

La sentenza di secondo grado aveva, in tal modo, violato anche uno dei principi basilari espressi dalla giurisprudenza consolidata di legittimità sull’onere della prova, che vuole che il giudice di merito, nelle sue valutazioni, debba attenersi alla linea argomentativa ripetutamente rimarcata dalla Cassazione (ex plurimis, sentenze 16423/2008, 11205/2007, 1709/2007, 17841/2004), per cui:

all’Amministrazione finanziaria spetta dimostrare, ex articolo 2697, comma 1, del Codice civile, l’esistenza dei fatti rivelatori, indici di maggiore capacità contributiva

al contribuente compete l’onere di provare, ex articolo 2697, comma 2, del cc, i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della stessa pretesa su cui l’Amministrazione ha fondato l’atto impositivo.

In conclusione, il giudizio della Corte di cassazione può così riassumersi:

è legittimo l’operato dell’ufficio che ricostruisce il reddito anche sulla base di presunzioni supersemplici

è illegittimo l’operato del giudice di merito che, nella propria valutazione, inverte l’onere della prova ponendola a carico dell’Amministrazione finanziaria.


Fonte: Agenzia Entrate

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