Qualora tra cedente e cessionario sussista un chiaro accordo volto a emettere e utilizzare dichiarazioni di intento ideologicamente false allo scopo di evadere l'Iva sulle cessioni e di far maturare al cedente indebiti crediti d'imposta da chiedere a rimborso, le operazioni di cessione non possono essere qualificate come cessioni non assoggettate a imposta perché finalizzate alla successiva esportazione. Le stesse operazioni devono invece essere qualificate - oggettivamente e soggettivamente - come normali cessioni interne, da assoggettare a Iva ordinaria, con la conseguenza che il tributo non applicato deve essere recuperato in capo al cedente, a cui vanno irrogate anche le sanzioni, perché l'accordo fraudolento con il cessionario rende la violazione a lui soggettivamente imputabile.

Questi i principi che si ricavano dalla lettura della sentenza della Cassazione 16819 del 20 giugno 2008.

La controversia

Un'impresa operante nel commercio dei pneumatici aveva effettuato cessioni in regime di non imponibilità Iva, interponendo fittiziamente come acquirenti nei propri rapporti commerciali alcune società fantasma, prive dei requisiti per qualificarsi "esportatori abituali" ai sensi dell'articolo 8 del Dpr 633/1972, che avevano rilasciato "dichiarazioni di intento" ideologicamente false.

Successivamente agli apparenti acquisti senza addebito di Iva, le società fantasma (del tutto inesistenti imprenditorialmente, costituite e domiciliate in "paradisi fiscali") avevano effettuato vendite (fatturate con Iva al 20%) nei confronti della società cedente, che a sua volta aveva rivenduto la stessa merce alle medesime società, sempre in esenzione d'imposta.

In tal modo, la cedente maturava (per effetto della differenza tra l'Iva passiva formalmente versata sugli acquisti effettuati presso le società fantasma e l'Iva non versata sulle vendite utilizzando le dichiarazioni d'intento false rilasciate dalle cessionarie) il diritto alla percezione di rimborsi, evadendo, inoltre, l'imposta sulle rivendite alle società fantasma, che non potevano essere effettuate in esenzione d'imposta poiché, come descritto, la cedente era consapevole della falsità delle dichiarazioni di intento rilasciate dalle cessionarie.

L'ufficio finanziario recuperava, quindi, a tassazione, con tre avvisi di rettifica relativi ad altrettante annualità, l'Iva evasa.

Le tesi della società, secondo cui "la falsità delle dichiarazioni di intento non poteva esserle addebitata in quanto la responsabilità per tale falsità deve ricadere esclusivamente sulle cessionarie che hanno reso la dichiarazione", non essendo essa tenuta a "effettuare alcuna verifica della veridicità delle dichiarazioni ex art. 8", venivano accolte dalla competente Commissione tributaria provinciale e confermate, previa riunione delle tre distinte opposizioni, dai giudici di appello.

L'Amministrazione finanziaria ricorreva allora per la cassazione della sentenza con due motivi di doglianza, mentre il contribuente esperiva un articolato ricorso incidentale.

La sentenza 16819/2008

La Corte, decidendo la causa nel merito, ha accolto il ricorso dell'Amministrazione, sostenendo, diversamente da quanto fatto dalla Ctr, che il fatto che la società cedente fosse a conoscenza dell'intento elusivo delle cessionarie e, in particolare, della falsità delle dichiarazioni d'intento da queste rilasciate ("elementi di fatto incontestabilmente accertati dal giudice di merito"), era sufficiente a renderla soggetto passivo dell'imposta. In tema di Iva, cioè, in caso di dichiarazioni d'intento false, per l'imposta non versata risponde anche il cedente che sia consapevole della falsità.

Ciò in quanto dalla consapevolezza, oltre che del cessionario, anche del cedente del fatto che l'operazione non era destinata all'esportazione, perchè la dichiarazione di intento era "ideologicamente falsa", discende la consapevolezza da parte dello stesso cedente (come del cessionario) della destinazione nazionale della merce e, quindi, della necessità di assoggettare l'operazione al tributo.

In altri termini, la consapevolezza "reciproca" tra cedente e cessionario - una sorta di consilium fraudis - elude la disposizione delineata dall'articolo 8 del Dpr 633/1972, che prevede, appunto, la non imponibilità dell'operazione alle condizioni dallo stesso indicate.

L'operazione di per sé astrattamente ammissibile sussistendo gli elementi formali per integrare gli estremi dell'esportazione (dichiarazione di intento ed emissione di fattura), difettava, cioè, dei requisiti sostanziali dell'effettività della cessione stessa; circostanza che comporta l'esclusione di quelle prestazioni dall'ambito operativo della norma. Evidenza che si sostanzia nella "consapevole mancanza originaria dell'elemento dato dal veritiero intendimento del cessionario (nel caso falsamente dichiarante) di volere esportare la merce acquistata".

Per quanto, poi, concerne l'eccezione della società resistente, seconda la quale, con riferimento ai rilievi relativi all'utilizzo di false lettere di intenti, dell'omesso pagamento dell'imposta debbono rispondere "soltanto i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa", non essendo prevista alcuna responsabilità solidale in capo al soggetto che abbia effettuato operazioni in esenzione di imposta sulla base di una dichiarazione che sia poi risultata falsa, la Cassazione ha ricordato come già in precedenza, con la sentenza 20834/2005, era stato affermato il principio secondo cui la condotta di colui che operi senza assolvere l'imposta in base a una dichiarazione della cui falsità è consapevole è del tutto equivalente a quella di chi sia del tutto privo della suddetta dichiarazione, salva ovviamente la concorrente responsabilità del cessionario, committente o importatore che tale falsa dichiarazione abbia rilasciato.

Tale principio, hanno sostenuto i giudici, deve essere ribadito "per carenza di qualsivoglia convincente argomentazione contraria" prospettata delle parti in causa.


Fonte: Agenzia Entrate

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