Perché l’operazione si consideri cessione all’esportazione, la spedizione dei beni all’acquirente finale extra Ue deve avvenire a cura o a nome del cedente anche se su incarico del cessionario, senza possibilità, per quest’ultimo, di inserimento in tale fase.

E’ la conclusione a cui è giunta la Cassazione, con la sentenza 21946/2007. La pronuncia è l’ennesimo intervento dei giudici di legittimità in tema di “operazioni triangolari”, materia in cui non sempre l’orientamento della Suprema corte è stato univoco.

Le “cessioni all’esportazione” rientrano tra le operazioni non imponibili per difetto del presupposto territoriale. Tra le diverse e tassative ipotesi menzionate dall’articolo 8 del Dpr 633/1972, si ritrovano le cosiddette “operazioni triangolari”, in cui un soggetto (cessionario italiano) acquista delle merci in proprio e richiede al fornitore (cedente italiano) di spedirle direttamente a un subacquirente finale extra Ue (cessionario straniero).

Condizione fondamentale per l’extraterritorialità dell’operazione è che, quindi, il primo acquirente (cessionario o commissionario) italiano non acquisti mai la disponibilità fisica delle merci, in quanto la consegna al cliente straniero deve essere curata dallo stesso primo cedente.

Sulla tassatività di tale requisito e, quindi, sulla possibilità o meno per il cessionario italiano di inserirsi nella fase della consegna, si sono alternati, come accennato, diversi indirizzi giurisprudenziali.

Ad esempio, con la sentenza 5065/1998, la Cassazione aveva affermato che la consegna dovesse essere curata direttamente dal primo cedente, senza che il cessionario italiano potesse inserirsi in tale fase.

Successivamente, con la pronuncia 4098/2000, i giudici di legittimità addivenivano a un approccio meno rigoroso della questione ritenendo, che "un'operazione triangolare, per essere considerata come cessione intracomunitaria, non presuppone necessariamente che il trasporto dei beni nell'altro "Stato membro" avvenga" a cura o a nome del cedente, in quanto lo scopo della norma è più limitatamente quello di evitare operazioni fraudolente le quali si verificherebbero se il cessionario nazionale potesse autonomamente - e cioè al di fuori di un preventivo regolamento contrattuale con il cedente - decidere di esportare i beni in un altro "Stato membro". Pertanto, ad assicurare il risultato perseguito dalla norma, si rende sufficiente che la consegna al cessionario nazionale sia stata, per comune volontà, originariamente prevista come cessione per il trasporto e la consegna a clienti residenti nell'altro "Stato membro" e che tale previsione risulti contenuta ed esplicitata in tutta la documentazione relativa alle operazioni in questione".

Di recente, con ulteriore inversione di rotta, la Suprema corte è tornata sulla controversa questione con la sentenza in commento, la n. 21946/2007.

Tale pronuncia si è espressa sul caso relativo a un avviso di accertamento, relativo all’anno di imposta 1993, con il quale l’ufficio Iva di Parma aveva assoggettato a imposizione delle cessioni di merce effettuate nell’ambito di una presunta triangolazione, per la quale il cedente nazionale non aveva fornito dimostrazione di aver curato direttamente la spedizione nei confronti del cliente extracomunitario.

La Cassazione, ribaltando così le conclusioni dei giudici di merito, per i quali era sufficiente la dimostrazione dell’effettiva esportazione delle merci, ha condiviso l’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria, ribadendo che, ai sensi dell’articolo 8 Dpr 633/1972, "l’esportazione dei beni deve avvenire a cura o a nome del cedente anche se su incarico del cessionario, senza possibilità di inserimento, in tale fase, del cessionario medesimo" (in questo senso si è accostata anche la giurisprudenza di merito più recente, sottolineando che "Poiché l’art. 8, comma 1, lettera a) del D.P.R. n. 633/1972 dichiara non imponibili ai fini IVA le operazioni che si svolgono tra il cedente nazionale ed il cessionario nazionale a condizione che le merci oggetto delle cessioni, vengano inoltrate all’estero direttamente ad opera del primo cedente, detta non imponibilità resta quindi inapplicabile quando le formalità doganali siano state svolte dai soggetti cessionari, ancorché le merci siano effettivamente uscite dal territorio nazionale" - Ctr Lazio, sentenza n. 178 del 3 febbraio 2006).

I giudici di legittimità hanno, inoltre, fornito importanti precisazioni in ordine alla prova dell’esportazione, evidenziando che, seppur l’articolo 13 della legge 413/1991 "ha inteso prevedere più specificatamente la necessità che l’esportazione risulti da un esemplare delle fatture emesse dai cedenti nonché la possibilità che essa risulti “anche” dalle fatture emesse dai cessionari (…) è anche vero che, in ogni caso, l’esportazione deve pur sempre risultare da documento doganale, ovvero da vidimazione apposta dall’Ufficio doganale su un esemplare della fattura, senza che siano ammissibili equipollenti".

La Cassazione, pertanto, ha ritenuto la prova dell’avvenuta esportazione assolutamente vincolata, sottolineando che questa non potrà ritenersi comunque raggiunta "attraverso documentazione diversa da quella espressamente prevista dalla legge ovvero desunta indirettamente da elementi diversi, o che, in ultima analisi, possa addirittura farsi a meno della suddetta documentazione laddove, risultando la merce comunque esportata, vi sarebbe stata mancanza di danno per l’erario e possibilità comunque per la società di acquistare senza IVA utilizzando il plafond".

Fonte: Agenzia Entrate

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