Non sussiste il diritto al rimborso dell’Iva sugli acquisti, assolta e non detratta, per le case di cura che pongono in essere operazioni esenti, in quanto i relativi principi comunitari, sia derivanti dalla direttiva in tema d’imposta sul valore aggiunto, sia derivanti dalle pronunce dalla Corte di giustizia, non ne consentono la spettanza. Da qui, la legittimità della posizione dell’Amministrazione finanziaria che ha rigettato l’istanza di rimborso.

Questo, in sintesi, il contenuto della recente sentenza n. 146/9/2007, del 22 novembre 2007, pronunciata dalla nona sezione della Commissione tributaria regionale di Roma.

Il caso affrontato dalla Commissione tributaria regionale

La controversia in questione rappresenta un “filone” processuale, instaurato da diversi anni da numerosi studi legali in tutta Italia, in conseguenza di una sentenza della Corte di giustizia Ue, segnatamente della pronuncia del 25/6/1997 nella causa C 45/95, con la quale l’Organismo comunitario ha condannato la Repubblica italiana per essere venuta meno agli obblighi a essa incombenti per effetto dell’articolo 13, parte B, lettera c), della direttiva n. 77/388/Cee (sesta direttiva del Consiglio), in quanto, "avendo istituito e mantenendo in vigore una normativa che non esenta dall’imposta sul valore aggiunto le cessioni di beni che erano destinate esclusivamente all’esercizio di un’attività esentata o in altro modo esclusi dal diritto a detrazione, la Repubblica Italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 13, parte B, lett. c) della direttiva citata".

In particolare, le società, ponendo in essere operazioni esenti ex articolo 10 (in particolare, n. 18) del Dpr 633/72, invocavano, in conseguenza del suddetto pronunciamento, il diritto alla restituzione dell’Iva assolta sugli acquisti e non detratta, in relazione agli acquisti afferenti alle operazioni esenti (indetraibilità totale o parziale, ex articolo 19, Dpr 633/1972). Conseguentemente, le stesse, in particolare operanti nel campo sanitario, producevano richieste di rimborso dell’Iva in questione, assolta nei periodi di imposta successivi e talora anche anteriori alla data di pronuncia della suddetta sentenza (ipotizzando, in genere, l’applicazione del termine di prescrizione ordinario decennale).

L’Amministrazione nulla rispondeva (ovvero, in altre occasioni, rigettava espressamente l’istanza) e la casa di cura, dunque, impugnava il silenzio rifiuto formatosi, di fronte alla Commissione tributaria provinciale.

Sul punto, si è formata una giurisprudenza inizialmente contrastante, in quanto in numerose occasioni le Commissioni tributarie provinciali e regionali accoglievano, con motivazioni a volte anche disomogenee, le tesi portate avanti dalle case di cura ricorrenti, condannando l’Amministrazione finanziaria all’erogazione di cospicui rimborsi d’imposta sul valore aggiunto.

La sentenza della Commissione tributaria provinciale

Uno degli esempi di tale giurisprudenza in favore delle società ricorrenti è rappresentato proprio nel processo in questione, ove la Ctp accoglieva il ricorso della casa di cura, allineandosi ad altre posizioni raggiunte dalla giurisprudenza nel corso di analoghi giudizi, ritenendo tuttavia l’istanza soggetta al termine biennale di decadenza, di cui all’articolo 21 del Dlgs 546/1992. Nel merito, la Ctp accoglieva il ricorso, sulla base dell’evolversi della giurisprudenza di merito, riconoscendo che la sussistenza del diritto al rimborso Iva, assolta sugli acquisti inerenti un’attività esente, era stata riconosciuta da numerose Commissioni tributarie provinciali, richiamando, inoltre, una posizione prodotta in giudizio riferita a una presunta acquiescenza, prestata, nei confronti di una di queste sentenze, da un ufficio finanziario, che pure avrebbe ritenuto sussistente il diritto al rimborso in capo alla società ricorrente.

In merito alla motivazione specifica del diritto invocato dal ricorrente, la Commissione affermava che la normativa Cee era da ritenersi operante tra gli Stati membri, a seguito di quanto stabilito dalla Corte di giustizia della Comunità europea, con la citata sentenza del 25/6/1997. Pertanto, la Ctp condannava l’Amministrazione all’erogazione del rimborso d’imposta, oltre a relativi interessi maturati e maturandi.

La tesi dell’ufficio finanziario nel giudizio di appello

L’agenzia delle Entrate impugnava la sentenza di primo grado, evidenziando numerosi motivi per i quali il sancito diritto al rimborso in realtà non era spettante.

Nell’atto di appello, l’Amministrazione finanziaria faceva rilevare la non diretta applicabilità, nell’ordinamento nazionale, della direttiva comunitaria, limitandosi essa a fissare i principi guida cui deve attenersi il legislatore nazionale nell’emanazione della normativa domestica; tale limite era superabile solo nelle ipotesi di una carenza della normativa nazionale su un punto specifico, ovvero se la direttiva fosse stata sufficientemente precisa e incondizionata da potersi applicare al caso concreto.

In effetti, il principio stabilito faceva riferimento a una fattispecie astratta, difforme da quella concreta in contestazione, e comunque sarebbe stata necessaria la “traduzione giuridica” della direttiva nella normativa nazionale. Inoltre, in merito agli effetti della sentenza della Corte, valeva la pena evidenziare che la posizione assunta nel giudizio di primo grado conseguiva alla ipotizzata diretta applicabilità delle sentenze della Corte di giustizia in Italia, il quale non è tuttavia un Paese di common law e, dunque, pure nella ipotesi di coincidenza tra fattispecie astratta a supporto dell’azione processuale e fattispecie concreta in contestazione, non consentiva l’efficacia immediata della sentenza della Corte di giustizia del 25/6/1997. Ciò pure in conseguenza di quanto disposto dall’articolo 228 del trattato Ce, secondo cui "quando la Corte di giustizia riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù del presente trattato, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta".

Secondo l’Amministrazione appellante, dunque, occorreva far riferimento alla normativa nazionale la quale, peraltro, in piena trasposizione dell’identico principio stabilito dall’articolo 17 della direttiva 77/388/Cee, prevedeva all’articolo 19, comma 2, che "Non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta".

L’ufficio appellante evidenziava ancora che, dall’analisi del ricorso introduttivo, si rilevava che l’azione processuale attivata dalla controparte era finalizzata alla restituzione dell’imposta assolta sugli acquisti, e che tale restituzione, pur se supportata dalla pretesa obbligatorietà di esenzione delle forniture acquistate, in forza del disposto dell’articolo 13, parte B, lettera c), dell’articolo 17 della direttiva 77/388/Cee, poteva assumere la natura di azione di ripetizione riferita a imposta da riconoscere detraibile, avuto riguardo alla posizione soggettiva dell’istante e alla natura oggettiva dell’imposta richiesta in restituzione (imposta assolta sugli acquisti).

Qualificando in tale maniera l’azione processuale, doveva rilevarsi che la detrazione in questione era preclusa, sia dalla normativa nazionale, sia dalla normativa comunitaria. E infatti, l’azione procedimentale e processuale era stata attivata dal soggetto passivo di imposta sulla base di un presupposto soggettivo che riguardava, invece, il soggetto attivo (l’emittente le fatture che avevano dato luogo all’assolvimento dell’imposta da parte del ricorrente): la previsione dell’obbligo di esentare le forniture, prevista dalla norma della direttiva, infatti, era riferita al soggetto che ha eseguito le forniture, e non alla società istante, e dunque poggiava su un diritto inesistente in capo al soggetto passivo di imposta, per carenza di legittimazione passiva.

L’Amministrazione evidenziava altri motivi di appello, riferiti all’insussistenza del diritto in capo alla società ricorrente (mancato assolvimento dell’onere probatorio, ex articolo 2697 cc, riferito alla “destinazione esclusiva” degli acquisti alle attività esenti, non dimostrato nel processo; avvenuta contabilizzazione, a beneficio della società ricorrente, dell’Iva indetraibile quale componente reddituale negativa ai fini delle imposte dirette, ex articolo 64, comma 1, del Dpr 917/1986, nella formulazione vigente ratione temporis e posizioni giurisprudenziali di merito e di legittimità a proprio vantaggio).

La società controdeduceva all’appello ribadendo la spettanza del diritto al rimborso ed evidenziando, in particolare, la legittimazione attiva del cessionario effettivamente colpito dal tributo e, contestualmente e conseguentemente, effettivamente danneggiato dal mancato recepimento della direttiva, che aveva comportato, come conseguenza, il necessario assolvimento di una imposta non dovuta.

In merito, poi, al termine di decadenza, la controparte evidenziava che il dies a quo di cui all’articolo 21 del Dlgs 546/1992 non decorreva dal momento del pagamento, ma da quello in cui si era verificato il presupposto per la restituzione, e tale termine iniziale non era ancora attivato a causa del mancato recepimento della direttiva.

La sentenza della Commissione tributaria regionale

La Commissione tributaria, in prima udienza, su richiesta della difesa della contribuente e con l’assenso dell’ufficio, rinviava a nuovo ruolo, in quanto la medesima questione, pendente di fronte alla Commissione tributaria provinciale di Napoli, era stata rimessa, ai sensi dell’articolo 234, comma 2 del trattato Ce, alla Corte di giustizia Ce, ai fini della corretta interpretazione dell’articolo 13, parte b), lettera c), della sesta direttiva Iva (esenzione all’interno del Paese – esenzione delle forniture di beni destinati esclusivamente a un’attività esentata o esclusi dal diritto a deduzione – applicabilità diretta).

In seguito alla pronuncia della Corte, la Commissione tributaria regionale di Roma ha accolto la tesi dell’Amministrazione, ritenendo non spettante il rimborso dell’Iva indetraibile.

La Commissione, al fine di decidere, ha tenuto in considerazione il dispositivo dell’ordinanza della Corte di giustizia Ce, sulla questione pregiudiziale rimessa dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli.

La Corte di giustizia ha evidenziato che "La prima parte dell’art. 13, parte B, lett. c), della Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, deve essere interpretata nel senso che l’esenzione da essa prevista si applica unicamente alla rivendita di beni preliminarmente acquistati da un soggetto passivo per le esigenze di un’attività esentata in forza del detto articolo, in quanto l’imposta sul valore aggiunto versata in occasione dell’acquisto iniziale di detti beni non abbia formato oggetto di un diritto a detrazione".

I giudici di secondo grado, hanno proseguito evidenziando, tra l’altro, che "…la direttiva CEE n. 77/388 del 17/5/1977 non essendo un Regolamento consente una discrezionalità nei tempi e nei contenuti da parte degli Stati membri certamente nel contesto di linee guida ben definite…Il legislatore europeo, con la suddetta Direttiva ha voluto evitare una doppia imposizione, non ha voluto favorire una tassazione di valore zero, riferendosi alla cessione di beni utilizzati per attività esenti. Sono chiare in tal senso le argomentazioni e la sentenza della Corte di Giustizia Europea, sopra richiamata. Lo Stato italiano ha recepito la suddetta direttiva con il D.lgs. 2/9/97, n. 313, modificando l’art. 10 del D.P.R. 633/72 e prevedendo l’esenzione dell’IVA per le cessioni di beni acquistati o importati senza il diritto alla detrazione della relativa imposta. Non è condivisibile la motivazione dei primi giudici, in quanto il caso in esame riguarda la richiesta di rimborso IVA per l’acquisto di beni destinati ad attività esente. La fattispecie ricade sotto la disciplina dell’art. 19 del DPR n. 633/72. Tutte le altre questioni risultano assorbite dalla decisione in ordine alla interpretazione della norma comunitaria. Il dispositivo dell’ordinanza della Corte chiarisce che l’esenzione “si applica unicamente alla rivendita di beni”; non è questo il caso".

Evoluzione della giurisprudenza comunitaria e nazionale e della prassi amministrativa in materia

La recente pronuncia della Corte europea (ordinanza del 6 luglio 2006), citata dai giudici della Ctr, ha chiarito che l’esenzione in discussione va rivolta esclusivamente ai soggetti che – "non avendo potuto detrarre l’IVA corrisposta al momento dell’acquisto del bene in ragione del regime di esenzione applicabile all’attività dagli stessi svolta – successivamente decidono di rivendere a terzi detto bene". In tal modo, l’Amministrazione finanziaria, che ha sempre sostenuto questa tesi, forte di tale sostegno giurisprudenziale, ha ritenuto, che la questione dovesse intendersi definitivamente risolta (circolare 3/2007).

La giurisprudenza di merito, in effetti, dopo un primo orientamento oscillante tra riconoscimento delle ragioni dei ricorrenti e dell’Amministrazione, si è dunque definitivamente orientata verso la posizione da sempre espressa dall’Amministrazione.

In particolare, la Ctr Lombardia, con la sentenza n. 137 del 6/12/2005, ha evidenziato che l’articolo 13, parte b, lettera c), della sesta direttiva 77/388/Cee è esclusivamente finalizzata a evitare una doppia imposizione al momento della dismissione di beni che sono stati acquistati senza aver potuto esercitare il diritto a detrazione.

In tale sentenza, i giudici hanno argutamente osservato, con riferimento ai profili strutturali del tributo, che "per valutare sotto altro profilo l’incoerenza nell’ambito del sistema, si deve rammentare che l’art. 17 della Direttive 77/388/CEE (per l’Italia l’art. 19, comma 2 del decreto IVA) disciplina l’esercizio del diritto alla detrazione dell’imposta pagata al momento dell’acquisto o dell’importazione di beni e servizi, escludendolo per gli acquisti destinati ad attività esenti. Questa norma sarebbe priva di senso in quanto non si porrebbe più il problema della detraibilità o meno dell’iva inerente gli acquisti di beni destinati ad attività esente poiché le relative operazioni sarebbero immuni dal tributo"; ciò accadrebbe assumendo per valida la prospettazione della società ricorrente.

Sempre in linea con la posizione dell’Amministrazione, la sentenza della Ctr di Roma n. 99/6/2005, la quale ha accolto l’appello proposto dell’ufficio finanziario, affermando, tra l’altro, da un lato la soggezione del rimborso al termine di decadenza biennale fissato dall’articolo 21 del Dlgs 546/1992 e, dall’altro, la mancata adesione della fattispecie descritta dalla società istante a quella astratta prevista dalla direttiva; nell’occasione, la Commissione ha altresì condannato la controparte alla refusione delle spese di giudizio.

Ancora conforme all’orientamento dell’Amministrazione è la sentenza n. 276/34/06 della Ctr di Roma: anche in tale occasione i giudici hanno ritenuto di "doversi uniformare all’interpretazione da ultimo espressa dalla Corte di Giustizia Europea il 6/7/2006, secondo cui l’esenzione prevista dalla VI Direttiva CEE de qua, si applica unicamente alla rivendita di beni preliminarmente acquistati da un soggetto passivo per le esigenze di una attività esentata in forza del citato art. 13".

I giudici, inoltre, hanno ritenuto che la fattispecie in questione ricadesse sotto la disciplina dell’articolo 19 del Dpr 633/1972, in accoglimento della tesi dell’ufficio appellante. La norma, al secondo comma, prevede espressamente l’indetraibilità dell’imposta sugli acquisti afferenti operazioni esenti, e, rappresentando una deroga esplicita al principio di neutralità del tributo, impedisce il riconoscimento del diritto invocato dalla società istante.

La giurisprudenza di merito, dunque, anche alla luce della recentissima sentenza in commento, appare essersi definitivamente orientata verso l’interpretazione della questione fornita dall’Amministrazione finanziaria, che appare ormai pacifica per tutti gli attori dello scenario tributario.

Fonte: Agenzia Entrate - Luca Cogliandro

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