Il tema della deducibilità dei costi da black list ha assunto particolare rilievo nel quadro delle attività di controllo eseguite dall’Amministrazione finanziaria a partire dall’anno 2006, nel corso del quale, l’Agenzia delle entrate ha effettuato una serie di verifiche inerenti le operazioni commerciali intrattenute da operatori nazionali con soggetti residenti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, individuati come tali dal decreto ministeriale 23/01/2002.

All’esito dell’attività istruttoria, compiuta anche con l’ausilio della Guardia di finanza, sono stati emessi una serie di avvisi di accertamento, con cui si è provveduto a contestare l’omessa annotazione separata in dichiarazione, da parte dei soggetti d’imposta, dei costi cosiddetti da black list.

Le riprese a tassazione sono state effettuate in aderenza a quanto disposto dall’articolo 110, comma 11, Dpr n. 917/86, il quale, nel testo vigente ratione temporis, subordinava la deducibilità del costo alla separata indicazione nella denuncia fiscale nonché alla prova che le imprese estere svolgessero prevalentemente un’attività commerciale effettiva ovvero che le operazioni rispondessero a un effettivo interesse economico e avessero avuto concreta esecuzione.

In assenza del primo requisito (separata indicazione in dichiarazione), l’Amministrazione finanziaria ha effettuato i recuperi a tassazione, prescindendo, naturalmente, da ogni indagine in merito alla sussistenza del secondo.

Stante la giuridica impossibilità di una definizione della vicenda in chiave deflativa, i destinatari delle riprese fiscali hanno contestato gli atti impositivi davanti agli organi di giustizia tributaria sulla base di tre, distinte, argomentazioni:

la scusabilità dell’errore, annoverabile – secondo i deducenti – tra le violazioni meramente formali (alcuni utilizzano il termine “mera dimenticanza”)

la validità delle dichiarazioni integrative/correttive, presentate successivamente alle contestazioni, attraverso le quali si è provveduto alla separata annotazione dei costi

la rispondenza ai requisiti “sostanziali” previsti dalla norma dei componenti negativi di reddito.

La presentazione della dichiarazione integrativa: conseguenze ai fini della deducibilità dei costi e primi orientamenti giurisprudenziali

Come detto in precedenza, alcuni destinatari delle riprese fiscali hanno presentato agli uffici finanziari le denunce integrative ai sensi dell’articolo 2, commi 8 e 8-bis, Dpr n. 322/98, in cui è stata eseguita l’annotazione separata dei costi, omessa nelle denunce originarie.

La questione relativa all’efficacia delle dichiarazioni integrative, ai fini dell’annotazione separata dei costi, è stata ampiamente affrontata in sede parlamentare e amministrativa.

Il 15 novembre 2005, il vicepresidente della commissione Finanze della Camera ha rivolto un’interrogazione parlamentare (n. 5-04959) al ministro dell’Economia e delle Finanze per conoscere la posizione del governo circa la possibilità di "sopperire a detta omissione, che non ha comportato alcun danno alle ragioni dell’erario, presentando una dichiarazione integrativa, ai sensi dell’art. 2, comma 8, del DPR 22 luglio 1998, n. 322, in cui indicare gli ammontari di tali componenti negativi dedotti e non evidenziati nella dichiarazione originaria, valida anche nei casi in cui l’Amministrazione finanziaria abbia già iniziato la sua attività di controllo".

La risposta è stata resa il 30 novembre 2005 dal sottosegretario all’Economia, il quale ha osservato: "La separata indicazione dei componenti negativi costituisce… condizione autonoma e necessaria, anche se non sufficiente, ai fini della deducibilità degli stessi, come peraltro già precisato nella risoluzione 46/E del 16 marzo 2004 dell'Agenzia delle entrate. Ciò premesso, si ritiene, in relazione al quesito posto, che nel caso in cui i costi non siano stati separatamente indicati in dichiarazione, al contribuente non è consentito correggere la dichiarazione, avvalendosi delle procedure previste dall'articolo 2, commi 8 e 8-bis del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322".

Nell’ambito della stessa risposta, il sottosegretario ribadiva, tuttavia, la necessità di coordinare la predetta conclusione con i principi generali del sistema tributario, e in particolare con quelli della emendabilità della dichiarazione tributaria e della tutela dell’affidamento e della buona fede del contribuente: "da tali principi discende, allora, la possibilità di rimediare errori od omissioni della dichiarazione anche nei casi… in cui i citati commi 8 e 8 bis non sono applicabili, a condizione, ovviamente, che le susseguenti iniziative, volte all'integrazione della dichiarazione, non contrastino con le finalità della norma violata. In particolare, tenuto conto della precipua funzione della norma di cui al citato articolo 110, comma 11, Tuir, chiaramente eccezionale e preordinata ad assicurare l'efficacia dell'azione di controllo, si ritiene che la possibilità di consentire l'integrazione della dichiarazione, con separata indicazione dei costi derivanti dalle operazioni con Paesi black list, sia ammessa a condizione che non siano iniziati accessi, ispezioni o verifiche o altre attività amministrative di accertamento di cui l'autore abbia avuto formale conoscenza".

La posizione del dicastero economico è stata ribadita dall’Agenzia delle entrate, la quale, con la risoluzione n. 12/E del 17 gennaio 2006, dopo aver negato l’emendabilità della dichiarazione secondo il disposto dell’articolo 2, commi 8 e 8-bis, del Dpr n. 322/98, giacché effetto della correzione non sarebbe quello di determinare un aumento né una diminuzione dell’imponibile, ha inteso dare sostanza al principio generale di tutela dell’affidamento e della buona fede del contribuente, codificato dall’articolo 10 della legge n. 212/2000, con il ritenere possibile la presentazione di una dichiarazione correttiva, la quale, attraverso la separata indicazione dei costi per operazioni con imprese residenti in tax haven, ponga rimedio alla precedente omissione.

Ciò a condizione, però, che non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento nei confronti del contribuente, delle quali questo abbia avuto formale conoscenza.

Pertanto, deve ritenersi che la previsione della condizione per cui il ravvedimento opera solo qualora non siano iniziati accessi, ispezioni e verifiche è da ritenersi pienamente coerente con il sistema normativo.

La risoluzione n. 12/2006 ammette, infatti, la rettificabilità della dichiarazione e la conseguente applicazione delle sanzioni ridotte, ma ciò solo qualora l’Amministrazione non abbia compiuto alcuna attività di accertamento.

Diversamente si perverrebbe alla conclusione, incomprensibile, di consentire l’applicazione di un regime sanzionatorio premiale anche laddove il contribuente addivenga a una modifica della propria dichiarazione in seguito all’intervento dell’Amministrazione finanziaria.

Sotto tale profilo, pertanto, la fattispecie si conforma a quanto dettato nell’ambito della disciplina del ravvedimento operoso, ex articolo 13 Dlgs n. 472/97, con riferimento al quale è esclusa l’applicazione nel caso di violazione già constatata o nel caso in cui siano iniziate ispezioni o verifiche o altre attività amministrative delle quali l’autore della violazione (o i soggetti per i quali ha agito) abbia avuto formale conoscenza.

Ancor più, dopo la soppressione dell’istituto del ravvedimento operoso gratuito, che escludeva l’applicazione delle sanzioni in caso di rettifica entro tre mesi dall’omissione o dall’errore, nel caso di fattispecie che non incidevano sulla determinazione dell’imponibile, l’impostazione sopra descritta deve ritenersi l’unica idonea all’interpretazione dell’istituto, con conseguente impossibilità di sanare la posizione fiscale a seguito di correzione della dichiarazione operata successivamente alle operazioni di controllo da parte del Fisco.

Antitetica all’impostazione offerta dall’Amministrazione finanziaria risulta, però, l’interpretazione offerta sul punto dalle prime pronunce giurisprudenziali, che hanno avallato, sul piano giuridico, i comportamenti assunti dai contribuenti (cfr Ctp Treviso n. 77/2006 e n. 99/2006), ritenendo valide le dichiarazioni integrative sul presupposto del carattere formale dell’omissione, idonea, come tale, a essere sanata in qualsiasi momento.

Le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza veneta appaiono discutibili, a parere di chi scrive, oltre che sotto il profilo della mancata correlazione tra il comma 8 e il comma 8-bis dell’articolo 2 del Dpr 322/98, soprattutto per avere classificato come meramente formale la violazione in questione.

A tal fine, si tratta di capire se il requisito della separata indicazione dei costi sostenuti assume, ai fini della deducibilità degli stessi, natura di obbligo meramente formale, o non piuttosto quello di onere di natura sostanziale, per cui, in caso di omessa indicazione, i costi, seppure effettivamente sostenuti, sono soggetti al disconoscimento, seppure ai soli fini della loro deducibilità dal reddito del periodo di sostenimento.

Sul punto offre delucidazioni la risoluzione n. 46/E del 2004, la quale prevede espressamente che ai fini della deducibilità dei costi, in disapplicazione delle disposizioni stabilite dal Tuir, il contribuente deve fornire prova, mediante idonea documentazione, sia dell’effettivo vantaggio economico derivante dall’intrattenimento di rapporti commerciali con società estere, sia l’effettività e l’inerenza delle spese sostenute, restando salvo che In ogni caso il contribuente è tenuto ad indicare separatamente in dichiarazione i costi relativi alle operazioni in questioni, nonché a dimostrare in sede di accertamento che le stesse abbiano avuta concreta esecuzione nei termini prospettati.

Sembra pertanto che la norma vada interpretata nel senso che a nulla vale la prova relativa alle operazioni effettivamente sostenute, se le stesse non vengono poi indicate separatamente in dichiarazione, ovvero che l’indicazione separata costituisce obbligo autonomo, ai fini della deducibilità, in aggiunta e non a semplice conferma o attestazione delle operazioni intercorse con imprese fiscalmente domiciliate in paesi a regime privilegiato, principio agevolmente ricavabile già dal testo delle istruzioni alla compilazione del modello Unico 2004 per il 2003.

Le stesse istruzioni ai modelli di dichiarazione prevedono infatti che "Al fine del riconoscimento della deducibilità, il contribuente ha l’onere di indicare separatamente nella dichiarazione dei redditi l’importo dei componenti negativi di reddito portati in deduzione".

In ossequio al dettato normativo, non può dunque che attribuirsi, sul piano sanzionatorio, valenza “sostanziale” all’obbligo della separata annotazione, finalizzato a consentire all’Amministrazione finanziaria l’effettuazione “immediata” dei controlli e suscettibile di essere sanzionato con l’indeducibilità del costo nell’ipotesi di omessa separata indicazione in dichiarazione (cfr risposta sottosegretario Economia citato: "Una simile conclusione è supportata, nel caso in esame, anche dalla ratio della norma recata dal citato articolo 110, comma 11, che, nel prescrivere la separata indicazione in dichiarazione dei costi e nel subordinare espressamente la deducibilità degli stessi a questa condizione, intende predisporre le condizioni necessarie perché il monitoraggio delle operazioni intercorse con paesi a regime fiscale privilegiato possa effettuarsi costantemente e con la medesima efficacia").

L’intervento del legislatore tributario del 2007

Com’è noto, la questione dei costi da black list è stata oggetto, di recente, di una modifica legislativa, formulata anche al fine di eliminare le rilevanti conseguenze che erano derivate dagli accertamenti, emessi dagli uffici sulla base della semplice carenza dell’annotazione separata.

La legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Finanziaria per l’anno 2007), ha infatti modificato radicalmente la disciplina in esame.

Con l’articolo 1, comma 301, è stato inserito, dopo il primo periodo dell’articolo 110, comma 11, del Tuir, il seguente: Le spese e gli altri componenti negativi deducibili ai sensi del primo periodo sono separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi.

E’ stato, nel contempo, soppresso l’ultimo periodo della predetta disposizione (la deduzione è comunque subordinata alla separata indicazione…).

Il successivo comma 302 ha invece aggiunto all’articolo 8 del Dlgs n. 471/97 il seguente periodo: 3 bis. Quando l’omissione o incompletezza riguarda l’indicazione delle spese e degli altri componenti negativi di cui all’art. 110, si applica una sanzione amministrativa pari al 10 per cento dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di euro 500 ed un massimo di euro 50.000.

Da ultimo, con il comma 303, è stata introdotta una disposizione di carattere transitorio, che sancisce l’applicabilità delle modifiche di cui al comma 302 anche alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore della presenta legge, sempre che il contribuente fornisca la prova di cui all’articolo 110, co. 11, primo periodo (il soggetto nazionale ha l’onere di provare che le imprese fornitrici estere svolgano prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondano a un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione).

L’intervenuta modifica della norma ha comportato, per l’interprete, alcune difficoltà operative, con particolare riferimento alle violazioni commesse in epoca precedente all’entrata in vigore della legge finanziaria.

Sul punto, è intervenuta la circolare n. 11/E/07, elaborata a seguito degli incontri con la stampa specializzata.

Con specifico riferimento alla questione in esame, l’Agenzia delle entrate, oltre a precisare che, a seguito della novella legislativa, la deducibilità delle spese non è più subordinata alla separata indicazione in dichiarazione, bensì soltanto al rispetto delle condizioni richieste dal primo periodo dell’articolo 110, comma 11, Tuir, ribadisce, quale unica conseguenza scaturente dall’inosservanza dell’adempimento, l’applicabilità delle sanzioni previste dal nuovo comma 3-bis dell’articolo 8 del Dlgs n. 471/97, introdotto dall’articolo 1, comma 302, della legge finanziaria 2007.

Limitatamente all’aspetto temporale e, quindi, per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della modifica (1° gennaio 2007), il citato documento di prassi riconosce la possibilità di ottenere la deducibilità del costo a condizione che il contribuente fornisca la prova di cui all’articolo 110, comma 11, primo periodo, Tuir.

Quanto all’efficacia di una eventuale dichiarazione integrativa, l’Agenzia evidenzia la necessità di distinguere il momento temporale in cui essa è presentata, potendosi considerare validamente efficace nella sola ipotesi in cui il contribuente non abbia subito accessi, ispezioni o verifiche, egli potrà presentare dichiarazione integrativa ai sensi dell’art. 2, comma 8, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 (sempre che ricorrano le condizioni previste dalla norma), come già chiarito nella risoluzione 17 gennaio 2006, n. 12/E.

A parere di chi scrive, l’articolo 1, comma 303, della legge finanziaria per il 2007, nell’introdurre una disposizione a carattere transitorio, ha fatto esclusivo riferimento alla disciplina sanzionatoria di cui al precedente comma 302 e non, anche, al comma 301, che ha abolito la condizione della separata annotazione del costo ai fini della sua deducibilità.

Di conseguenza, seguendo l’interpretazione letterale della norma, l’applicabilità della nuova disposizione alle violazioni commesse prima del gennaio 2007 dovrebbe limitarsi alla sola sanzione, introdotta dal comma 302, mentre, l’indeducibilità del costo dovrebbe colpire tutte le ipotesi, precedenti alla modifica legislativa, in cui il contribuente abbia omesso l’annotazione separata.

In tal senso si è pronunciata la Commissione tributaria provinciale di Bologna, la quale, in una delle prime decisioni sul punto (sentenza n. 32/12/06, depositata il 5 marzo 2007), ha attribuito valenza letterale alla disposizione transitoria (comma 303 citato), negando così ogni efficacia retroattiva della norma sotto il profilo della violazione dell’obbligo “sostanziale” (mancata annotazione in dichiarazione) e annullando, tuttavia, l’avviso di accertamento sottoposto alla sua cognizione sul presupposto della validità della dichiarazione integrativa, presentata, nelle more, dal ricorrente.

Nonostante l’applicazione retroattiva della novella legislativa sia stata formulata soltanto con riferimento al trattamento sanzionatorio, l’interpretazione offerta dall’Agenzia delle entrate (Fermo restando che per beneficiare della deducibilità dei costi non indicati separatamente in dichiarazione occorre fornire la prova di cui al citato art. 110, comma 11, primo periodo, del Tuir) appare più coerente sotto il profilo dell’interpretazione logico-sistematica della norma.

L’intervento del legislatore del 2007 è stato dettato, com’è noto, dall’esigenza di porre rimedio alle situazioni createsi sotto il regime della precedente disciplina nonché di contemperare il fine di salvaguardare l’effettività dei controlli fiscali, garantito dalla permanenza dell’obbligo di separata annotazione, con la possibilità, offerta ai soggetti d’imposta, di provare, in ogni caso, la rispondenza del costo ai requisiti normativi.

In altre parole, il divieto di retroattività della legge troverebbe un limite, nell’ipotesi in esame, nella necessità di evitare evidenti disparità di trattamento tra i contribuenti, alcuni dei quali pesantemente penalizzati dalla mancata applicazione della nuova disciplina.

Privilegiando, infatti, l’interpretazione letterale della norma, si dovrebbe giungere alla conclusione che, per le violazioni commesse ante 2007 e in assenza di una dichiarazione integrativa (almeno secondo la convinzione delle prime pronunce giurisprudenziali), il contribuente non potrebbe essere ammesso a provare l’effettività del costo, stante il carattere insormontabile del requisito della separata annotazione.

L’esito del contenzioso dovrebbe, quindi, ritenersi scontato: indeducibilità del costo e applicazione del nuovo trattamento sanzionatorio.

Eventuali riflessi della modifica legislativa sui rapporti processuali pendenti

L’applicazione della novella legislativa alle violazioni commesse prima della sua entrata in vigore impone, tuttavia, alcune precisazioni di carattere “metodologico”.

Gli avvisi in questione sono stati emessi, infatti, sulla base della semplice mancanza di annotazione separata dei costi, prescindendo da ogni indagine in merito all’effettività degli stessi.

L’applicazione delle modifiche legislative ai procedimenti in corso richiederebbe, di conseguenza, una sorta di “riscrittura” della motivazione degli avvisi, che tenga conto della documentazione probatoria offerta dalle parti private.

L’ingresso dei “nuovi” documenti nell’ambito dei procedimenti pendenti potrebbe avvenire secondo una duplice modalità: tramite la presentazione agli uffici di un’istanza di autotutela dell’atto, corroborata dalla documentazione idonea a superare la prova contraria di cui all’articolo 110, comma 11, Tuir, oppure mediante il ricorso alla procedura di cui all’articolo 24, comma 2, Dlgs n. 546/92.

Nel primo caso e nell’eventualità che l’ufficio impositore dovesse riconoscere l’idoneità della documentazione prodotta, la parte pubblica formalizzerà la richiesta di estinzione (parziale) del giudizio per cessazione della materia del contendere, affidando alla commissione la decisione relativa alla sanzione applicabile nel senso sopra indicato.

Nella seconda ipotesi, sarà compito del giudice pronunciarsi in merito (anche) all’idoneità probatoria dei documenti prodotti ai sensi dell’articolo 24, comma 2, citato, nonché riguardo alla sanzione eventualmente applicabile, ferma restando, in entrambi i casi, la possibilità, per la commissione, di rimodulare la pretesa in base alle giustificazioni offerte in corso di causa e alle argomentazioni dell’ente impositore, in ossequio al principio giurisprudenziale che riconosce al giudizio tributario la qualifica di impugnazione - merito.

Quanto alla efficacia estintiva delle dichiarazioni integrative, presentate successivamente alla contestazione delle riprese fiscali, la convinzione espressa dalle prime pronunce giurisprudenziali, nel senso della validità delle denunce, si ritiene non condivisibile alla luce del dettato legislativo vigente (articolo 13 del Dlgs n. 472/97).

Chiamata a pronunciarsi in merito alla conformità ai precetti costituzionali dell’articolo 9, ultimo comma, Dpr n. 600/73, nella parte in cui subordinava la possibilità di correggere la dichiarazione fiscale all’assenza di accessi, ispezioni o verifiche, la Corte costituzionale (ordinanza 23/07/2002, n. 392) ha testualmente evidenziato come, in assenza di quei presupposti, la correzione cesserebbe di essere un rimedio accordato dal legislatore per ovviare ad un errore del contribuente, per trasformarsi in un mezzo elusivo delle sanzioni predisposte dal legislatore per l’inosservanza delle disposizioni relative alla compilazione della dichiarazione de redditi.

L’insegnamento del Giudice delle leggi rimane tutt’ora valido nonostante l’attuale formulazione della norma (articolo 2, comma 8, Dpr n. 322/98), che ha soppresso ogni richiamo alle attività di accesso, ispezione e/o verifica, contenuta nell’omologa disposizione del Dpr 600/73.

Nella disciplina generale delle sanzioni tributarie esiste, infatti, una disposizione normativa, l’articolo 13, primo comma, da cui poter evincere il principio, applicabile anche nel caso che ci occupa, secondo cui la modificabilità della dichiarazione è ammessa soltanto nell’ipotesi in cui non siano iniziati ispezioni, accessi o verifiche.

Aderire alla tesi fatta propria dalle prime pronunce giurisprudenziali significherebbe, oltre che vanificare sistematicamente ogni attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria, ammettere implicitamente l’esistenza di un vuoto normativo.


Fonte: Margherita Di Paolo e Berardino Librandi Agenzia Entrate.

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