Con la sentenza n. 20748 del 12 giugno 2006, depositata il 25 settembre 2006, la Suprema corte ha esaminato la delicata questione della distribuzione di compensi agli associati in partecipazione, individuando i limiti dei poteri concessi agli uffici dell’Agenzia delle entrate nel valutare la congruità dei compensi percepiti da tali particolari categorie di soci.I fatti e le argomentazioni della CtrLa controversia trae origine dal recupero dei compensi attribuiti agli associati nell’attività dell’impresa per una società campana, con la conseguente ridefinizione del reddito dichiarato. L’ufficio locale, a seguito di una verifica di congruità di detti compensi, ha ritenuto che gli stessi fossero in realtà delle distribuzioni di reddito, altrimenti considerato base imponibile, occultate in semplici compensi per il personale.La Commissione tributaria regionale aveva riformato la sentenza di primo grado in base a due motivi cardine:
l’infondatezza della pretesa dell’ufficio di sindacare sul valore dei compensi attribuiti agli associati nell’attività dell’impresa
l’esistenza di un contratto di associazione in partecipazione, stipulato ai sensi dell’articolo 2549 del Codice civile, che non prevede alcun limite sia alle quote degli utili da attribuire che all’apporto che l’associato deve dare.
Il giudizio della Suprema corteLa Corte ha cassato la sentenza impugnata dall’Amministrazione finanziaria, ritenendo che la commissione abbia fatto una valutazione errata “nel ritenere che la misura dei compensi corrisposti agli associati in partecipazione fosse insindacabile”.La valutazione di congruità dei costi e dei ricavi è insita nei poteri di accertamento dell’Amministrazione, la quale può, osservando le regole stabilite dal Dpr n. 600/1973 e dal Dpr n. 917/1986 in materia di reddito d’impresa, procedere alla rettifica delle dichiarazioni presentate dai contribuenti.Questo principio, che rappresenta orientamento consolidato, è confermato anche nella sentenza in esame, nella parte in cui si afferma che “in realtà, tra gli ordinari poteri dell’Amministrazione rientrerebbe anche quello di valutare la congruità dei costi portati in deduzione per compensi agli amministratori o alle persone impiegate nell’impresa, onde evitare che, attraverso ingiustificate lievitazioni di tali costi si sottragga al Fisco una parte del reddito conseguito”.La difesa della pretesa erariale, si concretizza dal punto di vista dell’Amministrazione nella valutazione della congruità dei compensi elargiti a favore degli associati, che rappresentano dei costi da portare in deduzione. A fronte di tale potere, il contribuente che dimostri che l’apporto di tali soci giustifichi un volume particolarmente elevato dei compensi potrà controbattere detti fatti alle presunzioni degli accertatori. Al riguardo, la Corte sottolinea un principio che ritiene anch’esso consolidato, per cui, “in tema di imposte sui redditi, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 600 del 1973”.In una precedente sentenza del 23 aprile 2002 (depositata il 24 luglio 2002), la n. 10802, i giudici analizzarono dei costi per operazioni avvenute fra controllate, ritenendoli indeducibili in quanto valutati come “al di fuori di ogni logica di carattere economico”, sostenuti con il solo intento elusivo.Nella citata pronuncia del 2002, la Corte affermò che esiste, in realtà, un principio generale, che assieme al criterio oggettivo di valutazione delle varie prestazioni che ne discende, impedisce “che possano essere posti in detrazione (o, più esattamente, che possano avere efficacia ai fini fiscali nei confronti dell’Amministrazione finanziaria) costi non economicamente giustificati, al di sopra, in maniera rilevante (e perciò superiore alle eventuali normali oscillazioni di mercato) rispetto ai prezzi praticati comunemente”.Tale principio è desumibile giuridicamente da quanto disposto dall’articolo 9 del Dpr n. 917/1986, in base al quale l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare le varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito secondo il normale valore di mercato. Ciò vale ancor più quando l’unica ragione economica di tali costi si concretizzi nell’intenzione di diminuire la tassazione a proprio carico.Proseguendo nel commento della sentenza, la presenza di un regolare contratto di associazione in partecipazione, ai sensi dell’articolo 2429 del Codice civile, nella fattispecie in esame, non è un elemento di discrimine per la decisione dei giudici. Letteralmente, l’articolo 2549 cc dispone: “con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto”.Il rapporto fra la congruità dell’apporto e la partecipazione agli utili dell’impresa è lasciato alla valutazione delle parti, ma, di norma, la prestazione e controprestazione dovrebbero avere il medesimo peso, altrimenti una delle due parti del contratto potrebbe non avere il reale interesse a concludere l’accordo.La Suprema corte ritiene che “nel caso in esame, non viene messa in discussione la liceità dell’attribuzione degli utili quanto piuttosto la congruità di questi ultimi a fronte del “determinato apporto” di cui nulla si dice nella sentenza impugnata, in ordine alla prova fornita per giustificare l’entità del compenso riconosciuto dalla società ai propri associati”. Infatti, a fronte della valutazione di non congruità fra la due prestazione, spetta al contribuente provare che il rapporto, in apparenza sfavorevole, fra l’apporto e gli utili destinati all’associato sia giustificato da una motivazione di convenienza economica. Nel giudizio analizzato, i fatti che dimostrerebbero tale prova non sono nemmeno accennati dai difensori della società.Affermata la legittimità del potere dell’Amministrazione di effettuare una valutazione in merito alla congruità del rapporto fra prestazione dell’associato e utili distribuiti in suo favore, e che, detta stima può andare oltre la presenza di un regolare contratto di associazione in partecipazione, valutando la validità economica del rapporto di associazione, i giudici continuano sostenendo la sindacabilità da parte degli uffici dell’Agenzia delle entrate della interrelazione apporto/utili anche in presenza di scritture contabili tenute regolarmente.Con riferimento alla valutazione di costi e ricavi iscritti in bilancio, la Corte di cassazione afferma che gli uffici locali possono “procedere alla loro rettifica anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio di impresa negando la deducibilità di costi sproporzionati ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, indicati nelle delibere o nei libri sociali o nei contratti con una rilevante divergenza tra il valore effettivo e il valore iscritto o riportato” (cfr Cassazione, sentenze n. 11240/2002, n. 13478/2001 e n. 12813/2000).I ricorrenti avevano, inoltre, citato in favore delle proprie tesi alcuni precedenti pronunciamenti della Suprema corte in cui si analizzano i poteri dell’Amministrazione nell’analisi di congruità dei compensi dati agli amministratori delle società commerciali.In particolare, i principi esposti nella sentenza n. 6599, depositata il 9 maggio 2002, e ripresi nella pronuncia più recente n. 21155, depositata il 31 ottobre 2005, dispongono che “in tema di determinazione del reddito d’impresa, allo stato attuale della legislazione, l’Amministrazione finanziaria non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone, per cui tali compensi sono deducibili come costi ai sensi dell’art. 62 del D.P.R. n. 917/1986”.I giudici di piazza Cavour, di contro, sottolineano le palesi differenze esistenti fra il rapporto che lega la società ai propri amministratori rispetto al contratto stipulato con gli associati in partecipazione, evidenziando che “il ruolo, le responsabilità e le competenze di un amministratore delegato sono di ben diversa natura rispetto al generico apporto degli associati”.Da qui, la non estensibilità in via analogica di tali pronunce, che sembrano sposare la tesi difensiva, alla fattispecie oggetto della controversia qui esaminata.

0 commenti:

 
Top